Il Messaggero, 30 gennaio 2022
Storia del voto alle donne
Il 31 gennaio 1945, mentre l’Italia era divisa in due dalla linea Gotica, Hitler falliva la sua offensiva nelle Ardenne, l’Armata Rossa dilagava ad oriente, e la nostra Resistenza era paralizzata dal proclama del maresciallo Alexander, il governo italiano prendeva una decisione storica. Con un decreto legislativo firmato dal luogotenente del Regno Umberto di Savoia, e sotto l’impulso di De Gasperi e Togliatti, veniva concesso alle donne il diritto di voto. Ne restavano escluse le prostitute ed altre categorie indegne; ma in sostanza oltre 13 milioni di elettrici potevano, da quel momento, partecipare attivamente alla vita politica italiana.
L’ESTENSIONEPoco dopo fu loro esteso anche l’elettorato passivo, cioè la legittimazione ad essere elette. Il Paese si allineava così alle altre democrazie occidentali dove, attraverso un processo lungo e non sempre indolore, questo pregiudizio sessista era stato abbandonato.
Il movimento per il suffragio femminile non era in effetti iniziato bene. La prima a sostenerlo fu, durante la Rivoluzione Francese, Olympe de Gouges, fatta ghigliottinare da Robespierre. Ammonite da questo salutare avvertimento, le francesi lasciarono il campo alle colleghe d’oltremanica, dove Mary Wollstonecraft già si batteva per la parità dei diritti civili. Nemmeno in Gran Bretagna le suffragette ebbero tuttavia vita facile, e per tutto l’Ottocento la loro voce rimase inascoltata. Riemerse potente verso la fine del secolo, quando alla propaganda verbale si affiancarono varie azioni dimostrative, culminate nella protesta di Emily Davison che fu investita al derby di Epsom dal cavallo della scuderia reale. Molti parlarono di suicidio sacrificale, anche se pare che la donna volesse solo strappare al fantino l’insegna del monarca. In ogni caso la poveretta morì quattro giorni dopo, e il suo nome divenne un simbolo. Alla fine del primo conflitto mondiale, il Regno Unito approvò il suffragio universale, preceduto da Australia e Nuova Zelanda. La Francia dovette aspettare quanto noi.
Il primo approccio alle urne avvenne dunque il 15 marzo del 1946, durante le parziali elezioni amministrative, ma il vero debutto fu consacrato il successivo 2 giugno per il referendum tra Monarchia e Repubblica e la nomina dei membri della nuova assemblea Costituente. L’affluenza fu massiccia, e 21 donne furono chiamate a scrivere la Carta fondamentale: poche – un decimo – rispetto al numero complessivo, ma significative per cultura e sensibilità politica.
LE CARICHEAlcune, come Nilde Iotti, sarebbero arrivate alle più alte cariche istituzionali. Nondimeno il cammino verso una reale parità era ancora lungo, perché molte erano le diffidenze non solo nel mondo cattolico ma anche in quello laico e persino radicale. Alcune di quelle riserve suscitano oggi un misto di tenerezza nostalgica e di bruciante irritazione. Tenerezza nostalgica, perché esprimono un mondo a metà tra la concezione paolina dell’ubbidienza muliebre e quella deamicisiana della mite casalinga, materna educatrice. E irritazione, perché l’idea che i connotati sessuali possano prevalere su quelli fondamentali della persona umana, cioè il cuore e il cervello, configgono sia con il buon senso che con la razionalità.
L’INCISOTuttavia già nella Costituzione, accanto all’edittazione solenne della parità di diritti, era introdotto l’inciso sui requisiti di accesso alle cariche pubbliche, che venne interpretato come limitativo per la carriera delle donne in settori sensibili. Il che significava, come per gli dei omerici, togliere con la sinistra quello che si concedeva con la destra. Ed in effetti si affermò un maschilismo bigotto, che oltrepassava i limiti del tradizionalismo clericale e si estendeva al mondo cosiddetto progressista. Un esempio clamoroso fu costituito dalla magistratura, di cui si possono citare alcuni florilegi. Nel 1957 il Primo presidente onorario della Cassazione, Eutimio Ranelletti, definiva la donna «fatua, leggera, superficiale, emotiva, passionale e impulsiva» e quindi inadatta a rivestire, «per il suo complicato sistema nervoso», la missione sacerdotale della toga. Lo stesso Giovanni XXIII, pur lodando le qualità femminili incarnate nella Vergine Maria, sottolineava che «La professione della donna non può prescindere dai caratteri inconfondibili con cui il Creatore ha voluto contrassegnarne la fisionomia». Cosicché «la parità dei diritti, giustamente proclamata, non implica in nessun modo la parità di funzioni. E non considerare questa necessaria complementarietà sarebbe mettersi contro natura». Parole che oggi costerebbero – non al Sommo Pontefice ma al privato cittadino – una denuncia penale.
L’INGRESSOSempre per la magistratura, le donne dovettero attendere il 1963 per farvi ingresso, e dopo un timido avvio il loro numero è aumentato in modo esponenziale. Oggi costituiscono, tra le nuove leve, la maggioranza delle toghe. Quanto alla politica, ormai si sono affermate a pieno titolo, e spesso si sono dimostrate, come Margaret Thatcher, Golda Meir o Angela Merkel, assai più brave e determinate di molti loro colleghi. Restano, è vero, alcune isole di resistenza, di cui nessuno parla mai, come la direzione d’orchestra. Le bacchette femminili sono ancora assai rare, e nessuna ha finora, raggiunto la notorietà di Furwangler, di Karajan e delle decine di altri mostri sacri, tutti maschietti. Ma è solo questione di tempo.
Vista retrospettivamente, la ragione di questa millenaria sedimentazione discriminatoria non è facile da spiegare. La risposta data dai più, che la tradizione politica, militare, artistica,intellettuale ecc. ha sempre visto come protagonisti gli uomini, impedendo così l’emancipazione femminile, è una petizione i principio, e confonde l’effetto con la causa.
LA CIVILTÀPerché se è vero che per millenni la nostra è stata una civiltà maschilista edificata sul sacrifico della dignità femminile, è anche vero che la domanda si ripropone, sia pur retrocessa nel tempo: perché è stato sempre così? Probabilmente la risposta è la seguente: in origine l’unico criterio di supremazia era la forza bruta, e di conseguenza gli uomini hanno imposto il loro incontrastato dominio servendosi della grossolana forza muscolare. Da lì son derivate le occupazioni di tutte le altre cariche, relegando la donna a una umiliante subalternità, parzialmente mitigata dalla venerazione di alcuni, dalla gentilezza di pochi, e dal bisogno di tutti. La civiltà industriale e quella tecnocratica hanno restituito la supremazia al cervello, e di questo le donne dimostrano di far ottimo uso. Le recenti indagini sulle sinapsi dei neuroni sembrano rivelare che quelle femminili sono più raffinate ed efficienti delle nostre.