La Stampa, 30 gennaio 2022
Intervista a Giuliano Amato
E poi c’è Giuliano Amato che è il nuovo presidente della Corte costituzionale. Proprio lui, che quando parla, tanta è la conoscenza delle cose e del mondo, non sai se hai davanti il professore di diritto, l’ex presidente del Consiglio, o il giudice costituzionale. È il Dottor Sottile e basta, come si è visto anche ieri alla conferenza stampa da neo-presidente, quando ha risposto a un fuoco di fila di domande su tanti temi, specie sulle riforme istituzionali, sul ritardo verso le donne, e sui nuovi diritti su cui il Parlamento tarda a legiferare.
«Sapete – ha esordito – che la composizione tra gli Stati membri in Europa sta diventando più difficile che in passato, perché erano conflitti economici e, come scrivono i malevoli, basta dosare meglio le fette della torta. Negli ultimi anni i conflitti sono diventati di valori. Cos’è la famiglia? Cos’è il genere? Quanta sicurezza e quanta libertà? Questi sono conflitti più impegnativi, nei quali ci possono essere posizioni difficili da comporre. Bene, buona parte delle questioni che ci siamo trovati ad affrontare in questi anni, vanno a toccare esattamente questi temi... Sono questioni su cui la Costituzione dice chiaramente: la soluzione non va. Però non dice con altrettanto chiarezza quale soluzione devi sostituire a quella. E qui la collaborazione tra la Corte e il Parlamento diventa essenziale».
I temi sono noti: l’ergastolo ostativo, il fine vita, il cognome materno e paterno. Le sentenze ci sono state; manca la risposta del Legislatore. «Noi indichiamo una delle soluzioni possibili; certo il Parlamento ne può indicare un’altra. Ma se il Parlamento non lo fa, noi rimaniamo in questa situazione. E a volte il Parlamento per le stesse difficoltà che incontrano gli europei, ha difficoltà a risolvere. Noi rimaniamo con le nostre soluzioni, ma saremmo molto più contenti se fossero seguite da un intervento del Parlamento».
Sui nuovi diritti, c’è un crescente protagonismo della Corte. A fronte dei vostri moniti, si registra una latitanza del Parlamento...
«Lo dicevo. Ci vuole una collaborazione molto efficace e funzionante tra Corte e Parlamento. E io non accuso. Permettetemi di dirlo: ho fatto politica per molti anni quindi può darsi che verso la politica io sia più generoso di quanto non lo siano altri. Ma il dire: "Sono questi politici... eccetera eccetera" è una risposta francamente troppo facile. Molto spesso la questione ha una sua difficoltà per trovare un punto di equilibrio. Sa quanti anni ci abbiamo messo ad arrivare a quell’ottima legge che ha introdotto le cure palliative e la sedazione profonda? Quali conflitti veri, di valori, non interessi di bottega, si sono dovuti superare? Alla fine ci si è arrivati. Se posso dire: il Parlamento adotti quella legge come buono esempio. Ecco, lo dico volentieri».
In questi giorni di fibrillazione istituzionale, molti guardano all’elezione diretta del Capo dello Stato.
«Di certo presenta diversi benefici, tra i quali, come ho sentito dire, che si svolge in un solo giorno. Ma la lancetta di un orologio non la prendi e la metti in un altro orologio. L’elezione diretta non la puoi prendere come tale e collocarla all’interno del tuo sistema costituzionale. Il nostro Capo dello Stato è un organo di garanzia. Se si introduce l’elezione diretta, che cosa succede di questi poteri? Sono ancora poteri di un organo di garanzia? L’elezione diretta reca in sé una rappresentatività che non è così facile attribuire all’unità nazionale, perché sarà una parte che lo elegge. Ci saranno candidature politiche. In Francia, l’elezione diretta porta in qualche modo al semipresidenzialismo. Io stesso proposi l’elezione diretta nel 1978, e se ne discusse. Insomma, secondo me, se uno decide questo, deve cambiare orologio per evitare pasticci».
Sulla parità per le donne, ci sono ancora ritardi. Che cosa suggerirebbe al Parlamento?
«Guardi, la legislazione italiana è diventata una delle più avanzate nel sostenere la parità di diritti. Eppure negli ultimi anni, a questa legislazione che non ha nulla da invidiare a Svezia o Norvegia, ci siamo trovati a dover affiancare norme per punire in modo più severo il femminicidio. Il reato del maschio che continua a considerare sua proprietà la donna, che davanti a qualunque sgarro della donna rispetto al suo "ruolo" di oggetto di proprietà, si sente ancora comunque legittimato ad eliminarla perché ha tradito la regola di base. E magari ha trovato pure qualche giudice che gli dice: "Poverino, stavi attraversando una tempesta emotiva". Questo fa riflettere su quello che è il limite della legge. La quale certo esprime sempre sentimenti collettivi e opinioni condivise, ma in più casi è più avanti, se non dell’intera società, di una parte di questa. Parte che non è stata raggiunta dal senso di questa legislazione e che ha bisogno di essere portata alla con-sa-pe-vo-lez-za dell’effettività parità. Consapevolezza che manca a coloro che uccidono la "propria" donna, ma è presente diffusamente. Insomma, se posso alleggerire: quante volte è capitato anche a me, di costituire panel a convegni e dire "Stiamo attenti, quante donne ci sono?". Ecco, il solo fatto che ci domandiamo se ci sono e se sono sufficienti le donne presenti, vuol dire che continuiamo a non essere pari. Questo spiega molto di questo fenomeno. Per cui, attraverso la legge, si è riusciti a immettere nelle diverse carriere e professioni un numero adeguato di donne, ma poi c’è il collo di bottiglia attraverso cui la cooptazione istintiva maschile finisce per prevalere. Difficile combatterlo con la legge. C’è un lavoro ancora da fare... Noi maschi abbiamo di che vergognarci. Quindi non chiediamo al Parlamento di risolvere qualcosa che è dentro di noi».