Corriere della Sera, 30 gennaio 2022
La capa della procura di Aosta ricorda il delitto di Cogne
AOSTA «Anna Maria Franzoni è colpevole di quel delitto. Ne sono convinta. Ma non perché sia stata condannata in tutti i gradi di giudizio, piuttosto perché c’erano prove decisive contro di lei. Non c’erano altre possibilità, l’accusa era fondata».
A vent’anni dal delitto di Cogne Maria Del Savio Bonaudo, procuratore capo di Aosta all’epoca dell’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi, non ha dubbi.
Cosa è stato il «caso Cogne»?
«Era un omicidio, seppur brutto ed eclatante. Le indagini richiedevano intelligenza, attenzione e puntigliosità. Il pm Stefania Cugge, titolare del caso, è stata esemplare nella conduzione dell’inchiesta».
Vista la sua giovane età e la scarsa esperienza, ha mai pensato di sostituirla o di affiancarla?
«C’è stata qualche pressione esterna ma non ho mai avuto dubbi sulle sue capacità. Sono una donna e so cosa ho passato da parte degli uomini che volevamo farmi fare la serva in ufficio. Dovevo forse dare le indagini a un altro solo perché maschio?».
Torniamo al 30 gennaio 2002.
«Ho saputo delle indagini solo alla sera, la segretaria del pm si era dimenticata di avvisarmi. Erano momenti concitati. Stavo andando dal sindaco per la Fiera di Sant’Orso quando mi hanno chiamata, sono caduta dalle nuvole. Da Roma volevano informazioni».
Quali furono le sue prime impressioni?
«Nelle ore successive al fatto non avevamo certezze. La dottoressa Ada Satragni, vicina di casa della vittima e medico condotto, sosteneva che al bambino era esplosa la testa, contro tutte le evidenze scientifiche, mentre i medici dell’ospedale dicevano che si trattava di un atto violento. Bisognava quindi aspettare l’autopsia».
A Cogne che clima c’era?
«Le famiglie si erano allarmate, pensavano ci fosse in giro per il paese un “mostro”. Sono andata in tv per tranquillizzare la popolazione».
Le indagini si sono indirizzate subito su Anna Maria Franzoni?
«In quei giorni non ho mai detto che era stata la mamma ad uccidere Samuele. Abbiamo fatto tutte le indagini possibili, abbiamo sentito e monitorato tutti i possibili sospetti indicati dalla famiglia. Poi i tecnici del Ris hanno rilevato il sangue sulle ciabatte, quelle che lei indossava prima di uscire di casa mentre dopo calzava gli stivaletti, ed è stato trovato il pigiama sotto le lenzuola. Insomma, si è chiarito che non poteva che essere stata lei. Avevamo le prove, sono state raccolte bene».
E l’impianto accusatorio ha tenuto.
«Rispetto ad altre vicende simili, penso al delitto di Garlasco oppure all’omicidio di Meredith Kercher, quest’inchiesta non è stato possibile scalfirla».
Cosa rendeva complesse le indagini?
«Ricordo che c’era molta fretta di arrivare alla soluzione del caso ma non è che le indagini sono durate un’eternità. In quei momenti bisogna fare attenzione a tutto. Penso, per esempio, al tribunale del Riesame che dispose la scarcerazione di Anna Maria Franzoni: il medico legale, contrariamente a quello che ci aveva detto a voce, aveva scritto nella relazione che era avvenuta nel breve lasso di tempo in cui la madre era fuori casa. I giudici avevano quindi dedotto che non era stata lei. Mi sono andata a riguardare tutto il fascicolo, scoprendo che quello era il punto morto delle indagini».
Quanto ha inciso la pressione mediatica?
«Questa vicenda è diventata complessa per una serie di motivi, dall’interesse mediatico alla commozione e alla sofferenza che ha destato nei cittadini. Tutti ci chiedevano una risposta veloce ma per dare una risposta ci voleva il tempo di fare le indagini. Non è concepibile attribuire un reato così grave senza avere certezze».
Il momento più difficile?
«La pubblicazione su alcuni quotidiani della notizia che l’assassino indossava il pigiama. Noi lo sapevamo in camera caritatis perché ci era stato anticipato ma non potevamo chiedere una misura cautelare sulla base di informazioni orali, avevamo bisogno di una relazione scritta per la quale ci volevano un paio di giorni. Dopo quegli articoli, la gente si chiedeva come mai non l’arrestavamo. Eravamo in difficoltà. Anche per l’immagine di inefficienza o incapacità che potevamo dare».
Ha poi chiarito questo passaggio?
«Non sapevo chi avesse fatto trapelare la notizia, l’ho scoperto anni dopo quando ero già in pensione: era stato un mio sostituto procuratore, che consideravo come un figlio maggiore. Forse era deluso perché non gli avevo affidato il caso. Tra di noi era abitudine condividere tutto. È stato un tradimento. Ecco, questo mi ha fatto ancora più male».