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 2022  gennaio 30 Domenica calendario

Intervista ad Alessandro Gassmann - su "Io e i Green Heroes" (Piemme)

Alessandro Gassmann ama zappare e seminare, è appassionato di macchine agricole e ci racconta che, quando va nella sua casa in Maremma, guida i trattori, «quelli non grandi, ma non è così difficile».


Possiamo definirla un attore strappato alla terra?
«Possiamo dire che fare l’attore mi ha sradicato dalla terra. Mi ero iscritto ad Agraria all’università di Perugia e, per dirla con un eufemismo, non sono mai stato uno studente modello. Dopo essere stato rimandato in latino e greco, per punizione mio padre mi mandò a fare il barista. All’università ricordo che mi guardava con l’aria di dire, studia Agraria perché non ha voglia di fare nulla. E mi fece debuttare come attore accanto a lui in Affabulazione. È andata così».


Ora ha scritto un libro, strano e piacevole, a metà tra autobiografia e questioni ambientali e climatiche, in cui racconta che lei, figlio dell’immenso Vittorio Gassman, rischiava...
«Ho rischiato, da ragazzo, di essere tutto lampade abbronzanti e superficialità. Ho avuto in tempi lontani la possibilità di lavorare per Luca Ronconi, spettacoli di oltre sei ore in cui avevo il tempo di lasciare il teatro, andare nei locali a fare il dj (guadagnando parecchi soldi) e di tornare in camerino, pronto per l’ultimo atto».


Alessandro, quando ha scoperto di avere il pollice verde?
«Io non ho il pollice verde. Ho una fascinazione e un innamoramento totale per la natura. Vedo continuamente documentari, studio le forme animali. Da giovane mi arrampicavo sugli alberi, come Cosimo ne Il barone rampante di Italo Calvino. Al primo momento libero scappo in campagna, dove ho imparato i segreti per avvicinare gli animali selvatici. È semplice, devi restare fermo, immobile (come fanno i cacciatori, purtroppo). Devi fingere di non esserci. Un giorno, durante il primo lockdown, quello duro, nel silenzio totale, nell’assenza del rumore di automobili, mi trovai sopra vento, dunque non emettevo odori. E sono stato a pochi metri da volpi, fagiani, lepri, cerbiatti. Una meraviglia».


Il libro (edito da Piemme) si intitola Io e i #Green Heroes. L’ha dedicato a sua madre, l’attrice Juliette Mayniel.
«È lei che mi ha fatto crescere nel rispetto della natura. È figlia di contadini francesi, che non ho fatto in tempo a conoscere. La casa in campagna dei suoi nonni divenne il quartier generale degli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre è nata in un isolato villaggio rurale. Lei sa mungere, cosa che io non riesco a fare, mi fa impressione».



La storia dei suoi genitori durò poco.
«Due anni e qualcosa. Non ho mai occasione di parlare di mia madre, mi chiedono sempre di mio padre. Era di una bellezza fuori dal comune, uno dei volti della Nouvelle Vague, aveva vinto l’Orso d’oro alla Berlinale. Attrice cult ancora oggi, quando metto una sua foto sui social, spopola. Papà, beh lui era Super Gassman, all’apice della sua carriera. Erano gli Anni 60, periodo in cui non era facile stargli vicino, soprattutto con una donna evoluta, moderna, femminista come mia madre. Lui aveva divorziato da Shelley Winters, era un battitore libero. Fu lei a lasciarlo, con una espressione irriferibile che in romanesco verrebbe benissimo. Come ci rimase papà? È un argomento di cui non si è parlato molto. In seguito ebbero un rapporto amichevole».


Perché Juliette smise presto di recitare?
«Perché, un po’ svogliatamente, fece film non meravigliosi in Italia, l’ultimo progetto importante fu l’Odissea in tv dove lei interpretava la Maga Circe. Vedeva tanti film ma non amava il cinema, l’ambiente intendo, che in Italia era molto maschile, goliardico. Le passò la voglia».


Sua madre dove vive?
«Da una ventina d’anni in un luogo ameno del Messico, col patio al centro, il giardino. Gioca a bridge con le amiche, è pittrice, è stata brava a rimettere a posto ruderi rivendendoli a peso d’oro. È diventata la sua pensione. Ha 86 anni, ci sentiamo quasi quotidianamente via email in un lungo palleggiamento tra l’italiano e il francese. Al telefono meno, non ha abbastanza udito e si innervosisce se non sente bene. Da piccolo mi chiamava il ragazzino selvaggio, un omaggio al film di Truffaut, ma anche perché diceva che somigliavo fisicamente al giovane protagonista».


Ha saputo che le ha dedicato il libro?
«Sì, ma non è una donna che fa molti complimenti. È colta, raffinata. Si è divertita nella vita. Il cinema è il passato, non credo di sia mai rivista in un suo film. Ecco, se devo confessarlo in questo siamo identici».


Davvero?
«Non mi rivedo mai, la sola idea mi infastidisce, mi sento in imbarazzo, soprattutto nei film per la tv vedo gli errori, le imprecisioni, non mi sento credibile. E poi ho altro per la testa. Voglio fare solo regie, se ne avrò la forza mi piacerebbe girare documentari e occuparmi di natura».


Ma nell’ultima serie tv, Un professore, ha fatto saltare il banco degli ascolti...
«Faccio un mestiere che ha a che fare con l’egocentrismo, se reciti in un film e la gente ti fa i complimenti è piacevole. Mettiamola così, ho intenzione di privilegiare la regia».



Senta, ma chi sono gli eroi verdi del libro?
«In rete i social possono essere anche utili e non solo un luogo di nefandezze. Navigando sul web ho scoperto questi eroi, sto cercando di spendere la mia popolarità per le loro cause. Alla fine del libro c’è un QR code che apre una mappa dell’Italia, regione per regione, si individuano questi eroi nelle vicinanze, per migliorare il nostro impatto sul pianeta. Centinaia di aziende si riconvertono in attività eco sostenibili che creano lavoro e ricchezza. Conosco persone che forniscono seta agli stilisti ricavandola dall’interno bianco della buccia delle arance. Ho conosciuto Annalisa Corrado, ingegnera e socia del Kyoto Club di Roma che studia modi per rallentare il riscaldamento del pianeta. Con il loro aiuto, il ricavato del libro verrà devoluto per piantare alberi da frutta in terreni sequestrati alla mafia».


Esiste anche l’eco fanatismo, i talebani della bio diversità?
«In Italia è completamente sbagliata la comunicazione su queste tematiche. Sono sempre appannaggio della sinistra, e per fortuna se ne è occupata, ma spesso col ditino puntato che ha finito con l’allontanare ancora di più la gente. Io questo libro voglio mandarlo a Giorgia Meloni, con cui non condivido nulla, ma vorrei che la destra sviluppasse una sensibilità in questo campo. Il nostro futuro non può essere tema politico».


Questi temi si dovrebbero comunicare col sorriso e meno cipiglio.
«Se penso a Gianmarco Tognazzi... Siamo cresciuti insieme. È terrorizzato dagli animali, da ogni tipo di insetto. Su un set fu inseguito dalle scimmie».


Cosa pensa di Greta Thunberg?
«Attaccarla (anche volgarmente) è facile, la giovane età, la sindrome di cui è affetta... Non sarà lei a risolvere i problemi del pianeta ma è importante che esista, si sta spendendo molto, è una icona. E ha genitori che la proteggono».


Lei come si adopera sul green?
«Ho girato un documentario sugli artisti siriani rifugiati in Giordania e Libano per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite; ora ho una missione in Uganda per raccontare il muro di alberi che i rifugiati stanno edificando per fermare la desertificazione dell’Africa subsahariana».


È vero che con Sabrina si è sposò in un agriturismo?
«Vero. C’era un Quartetto d’archi. In totale eravamo in diciotto».


L’ultima volta che ha mangiato carne?
«Eh... Dai scherzo, la mangio una volta alla settimana».


Tempo fa ci ha detto che suo figlio Leo, vincitore di Sanremo Giovani nel 2020, scrive canzoni ambientaliste che...
«Che dovrebbe avere il coraggio di pubblicare. Si è appena laureato all’università americana a Roma, Art & Communication. Ma sta per cominciare il Festival di Sanremo? Quando mio figlio non partecipa non lo vedo. Guardo anche poco la tv».


Sa che per la prima volta ci stavamo dimenticando di un uomo monumentale e fragile?
«Vittorio! Non sia mai. Nel libro racconto di essere stato il figlio privilegiato, mi ha avuto all’età giusta. Con mia sorella Paola era troppo presto, con mio fratello Jacopo troppo tardi, Vittoria era lontana, in America. Tra noi fratelli e sorelle, nati da madri diverse, ci sono decenni di differenza. Avevo un rapporto fisico con mio padre, facevamo la lotta, giocavamo a tennis, le gare di nuoto».


Diletta, l’ ultima moglie di suo padre...
«La più importante, se non altro per la durata. È una donna vissuta sempre all’ombra di quel gigante e ha accettato meno di tutti noi altri il fatto che non ci fosse più. I miei fratelli? C’è affetto e stima per Paola e ancora di più per Vittoria, Jacopo è colto, studioso, bravo regista, persona complessa; Emanuele il figlio di Diletta è quello che conosco meglio, dai 14 ai 18 anni abbiamo condiviso la stanza».


Qual era il difetto di suo padre?
«Non sapeva guidare».


Ma se ha fatto Il sorpasso!
«Comprava auto sportive e correva come un matto. Inchiodava di colpo, prendeva male le curve. Al volante, credetemi, era un disastro».


E una qualità?
«Eccellente pagatore di tasse. Forse era la sua metà tedesca, da parte di suo padre. Ricordo il cruccio dei David di Donatello che erano rivestiti d’oro e non sapeva come denunciarli al fisco».


Jacopo ci ha detto che con i suoi amichetti delle elementari Vittorio organizzava le Olimpiadi culturali.
Sorride. «Erano quiz per bambini di sei anni con domande surreali: che cos’è una scolopendra? Dove abita Cossiga? Quanto pesa il pugile Tyson? Alcuni arrivavano preparatissimi e si divertivano, la maggioranza non tornava più. Si vincevano libri, i bambini tornavano a casa con la Recherche di Proust sotto il braccio».