la Repubblica, 30 gennaio 2022
Giorgetti minaccia di dimettersi
ROMA – Solo un faccia a faccia durato 75 minuti, nel gruppo della Lega a Montecitorio, evita che tra Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini salti anche l’ultimo ponte. Sta per venire giù tutto nel fortino della Lega. Primo pomeriggio, fuori dalla porta, i destini del Quirinale sono ormai segnati. Il segretario si è dovuto arrendere all’evidente impraticabilità delle soluzioni targate centrodestra che aveva ostinatamente perseguito. Dentro il partito è il gelo. Là fuori, Giorgia Meloni bombarda già il quartier generale: «Salvini vuole Mattarella? Non ci credo. Il centrodestra è da rifondare». Il capo leghista è più solo che mai, nel giorno della resa. Come se non bastasse, Giancarlo Giorgetti (big sponsor di Draghi al Colle) ha chiaramente ventilato le dimissioni da ministro. Sono le 11:30, l’accordo su Mattarella è stato appena siglato dai leader dei partiti e il numero due della Lega saluta i cronisti a Montecitorio: «Per alcuni questa giornata porta al Quirinale, per me porta a casa». E non è solo allusione al ritorno finalmente a casa, a Cazzago Brabbia, dopo una estenuante settimana romana. Anche perché pochi minuti dopo conferma all’Agi che le dimissioni non sono escluse: «È un’ipotesi, magari c’è da migliorare la squadra, il mio posto è a disposizione di chi è più bravo di me». Salvini legge impietrito i take di agenzia. Lo stesso a quanto pare accade a Città della Pieve, dove Mario Draghi si è ritirato con la moglie per staccare dallo stress di questi giorni e trascorrere qualche ora nella residenza umbra. Il premier non può permettersi di perdere uno dei pilastri del suo governo. Se viene meno, il rapporto già problematico col blocco Lega dell’esecutivo di trasformerebbe in un Vietnam nei dieci mesi restanti di legislatura che coincideranno già con la campagna elettorale. Tra il presidente del Consiglio e il ministro una telefonata chiarificatrice, l’invito a non fare colpi di testa è inevitabile. Poi è il turno di Salvini. Il segretario, già provato, non reggerebbe politicamente all’addio all’esecutivo del suo numero due. Se andasse via il capodelegazione, tutta la Lega dovrebbe uscire dal governo. E sarebbe la fine della leadership salviniana. La disfatta sarebbe totale. Il capo chiede a Giorgetti un incontro. Avviene al piano parlamentare del gruppo Lega di Montecitorio. Confronto tosto, come sempre tra loro. Il responsabile dello Sviluppo dice di essere «stanco» dei quotidiani attacchi dei colleghi di governo di Pd e M5S, di farsi carico di tutte le grane, di tutte le vertenze, stanco di portare avanti le battaglie del partito contro le restrizioni anti Covid e di farlo da solo. «Basta». Ce l’ha con i ministri Orlando, Patuanelli, Colao, coi quali non è mai corso buon sangue. Ma ce l’ha anche con un partito che ai suoi vertici non ha mai fatto quadrato, non l’ha mai difeso. È un non detto che tra i due pesa ormai da mesi. La divergenza sul Quirinale è stata solo l’atto finale di una contrapposizione non dichiarata ma evidente. E non è un mistero che i governatori Zaia e Fedriga siano dalla parte del ministro. Salvini promette che da lunedì cambierà registro, che la Lega sarà una «squadra», chiede o ottiene un incontro col premier e con lo stesso Giorgetti già domani, a margine del primo Consiglio dei ministri post elezione al Colle. Ed è in questo clima che segretario e vice della Lega escono dall’ufficio e incontrano insieme i giornalisti. Quanto meno un armistizio è stato siglato. Giorgetti chiede una «nuova fase nel governo. Quantomeno un nuovo codice comportamento tra gli alleati di maggioranza per non trasformare quest’anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale». La pistola carica delle dimissioni, per il momento, viene rimessa nel cassetto. Ma un solco si è aperto. Da oggi Matteo Salvini è un leader ancora più debole, dentro e fuori il partito. Chiamato a scelte più collegiali e condivise, all’interno. Fuori, la leadership dell’alleanza, dopo una sequenza di clamorosi errori di strategia, l’ha già persa: dall’applauso delle 20,20 nell’aula di Montecitorio la coalizione di centrodestra non esite più. Un teso faccia a faccia evita che salti l’ultimo ponte tra il ministro e il leader che adesso dovrà passare ad una conduzione più collegiale del partito