Corriere della Sera, 30 gennaio 2022
Qualche retroscena sulla rielezione di Mattarella
ROMA Mattarella resta. La corsa al Colle viene interrotta all’ottavo giro per l’incapacità dei suoi protagonisti di arrivare al traguardo. Questo è il resoconto della sfida per il Quirinale politicamente più sgrammaticata della storia, zeppa di strafalcioni, scarabocchi, errori da matita blu. E dalla quale tutti escono a vario titolo sconfitti. La notte della politica è proprio l’ultima notte prima dell’esame, quando i leader si rendono conto che devono prepararsi a consegnare il compito. Ma il loro foglio è bianco.
Nell’ansia di recuperare il tempo perso, dopo aver detto che «c’era tempo», Salvini si fa dare l’ennesimo mandato dagli alleati di centrodestra. Sono d’accordo che sui nomi non c’è accordo, ma su un punto si intendono: nessuno vuole un secondo incarico al capo dello Stato uscente. D’altronde il leader del Carroccio lo aveva anticipato all’assemblea dei grandi elettori leghisti: «...e non accetteremo mai un Mattarella-bis». Così, dopo aver incontrato il premier, si chiude con Letta e Conte – a loro volta divisi – per discutere chi scegliere.
Già lì accade qualcosa di strano, perché il segretario del Pd davanti al capo di M5S presenta una rosa di nomi senza Draghi. Più tardi, Salvini racconterà maliziosamente che «quando con Letta parlavamo in assenza di Conte, il nome di Draghi non mancava». Stava nella lista assieme ad altri, compreso Mattarella. Non è proprio un esercizio di stile confondere in un parterre di quirinabili chi siede al Quirinale. Ma Conte e Salvini non ci fanno caso, perché nella rosa c’è il nome su cui puntano: Belloni.
E dire che nel Pd era già scoppiato il putiferio tre giorni prima: proporre alla presidenza della Repubblica il capo dei servizi segreti non è roba da Paese dell’Occidente democratico. Riproporlo e trovare un’intesa su quel nome è diabolico. Eppure questo accade. E quando Conte (assieme a Salvini) rende pubblicamente noto che stanno puntando su una donna, il gioco pare chiuso. Franceschini sembra rassegnato: «È fatta purtroppo, perché con i voti della Meloni hanno i numeri. E in Aula si creerà un effetto trascinamento che ci costringerà a votarla». La De Petris, una vita passata nelle file di sinistra, si attacca al cellulare e in romanesco avvisa i compagni del Pd: «C’avete proprio rotto er...».
Non proprio con queste parole, ma con lo stesso tono di voce, Guerini spiega a Letta alcuni rudimenti di politica. Più tardi confiderà a un deputato del suo partito: «Non ho mai gridato così in vita mia». Grida al telefono anche con i dirigenti di Forza Italia, perché dichiarino subito la loro contrarietà alla candidatura. Con Renzi non c’è bisogno, si muove di suo: «Hanno provato a mettercela nel (bip) con Frattini. Ora ci riprovano con Belloni. Se non li fermiamo lanceranno anche il generale Figliuolo». Renzi ha appena finito di cenare con Casini, che oscilla tra l’ottimismo e il più nero pessimismo: per questo gli ha offerto una pizza e una bottiglia di champagne.
Gli schieramenti
I leghisti del Nord fermano Casini. Le urla di Guerini contro
la corsa di Belloni
Intanto i forzisti escono dal letargo e organizzano insieme con gli altri centristi un piano per la resistenza. Nel retro di un ristorante Toti chiama Di Maio, che sta alterato di suo: «È una cosa folle. Non ne sapevo nulla. Ho sempre detto che se si deve andare su un tecnico per me c’è solo Draghi. Se è un politico, si può fare con Casini». E allora comincia la conta per Casini. Solo che Salvini non può starci, perché su quel nome i leghisti del Nord sono sopra le barricate. Dirà il governatore lombardo Fontana «non sarei più potuto andare alle feste di partito e a casa sarei arrivato solo se scortato».
I numeri ballano e intanto i ministri forzisti premono perché il Cavaliere vada su Mattarella. Sanno che Draghi ha realizzato di non avere spazio e sta spingendo affinché sul Colle resti l’inquilino in scadenza di affitto. Peraltro nel pomeriggio, previdente, Giorgetti aveva invitato il dem Delrio a far sì che sul capo dello Stato uscente iniziassero a «scivolare» a scrutinio segreto un po’ di voti: «Perché vedo come si stanno muovendo questi pazzi e temo che si vadano a cacciare in altri guai. Fermiamo questa giostra». E la giostra si ferma: i voti per Casini non garantiscono e Berlusconi vira su Mattarella.
Per Salvini e Conte è il game over. Il leader della Lega prova a intestarsi il bis e viene bocciato dai suoi stessi compagni di partito: «Se era la sua prima scelta, avrebbe dovuto proporlo alla prima votazione». E quando Franceschini incorona Letta come «the winner», lividamente Conte rende noto che «Letta puntava su Draghi, dunque anche lui ha perso». Le scolaresche il giorno dopo salgono al Quirinale e ammettono di essere impreparate: «E con minore ruvidità di Napolitano – dice Toti – ci ha congedati». Non prima dell’ennesimo siparietto di cui si rende protagonista il forzista Barelli, che si rivolge così a Mattarella: «Presidente, se ha bisogno di spostare gli scatoloni, può contare su di noi». «Farò da me». E lo farà per sette anni: «La mia non sarà una presidenza a tempo».
Di Maio avrà tutto il tempo per fare ciò che si è ripromesso: «Chiederò la verifica nel Movimento. Perché quello è pericoloso e se ne deve andare». Fine della ricreazione.