Corriere della Sera, 29 gennaio 2022
Un documentario sui ragazzi autoreclusi
Il termine giapponese hikikomori significa letteralmente stare in disparte. Nel tempo, sono stati chiamati così quei giovani che decidono di ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella propria stanza senza contatti con il mondo esterno, se non attraverso un pc. Un fenomeno con numeri importanti: riguarda oltre centomila persone solo in Italia, senza contare tutte quelle di cui non si ha conoscenza.
Ragazzi che scelgono di rifugiarsi in una sorta di limbo, dove il tempo non conta più, in cui la realtà diventa altra e gli unici rapporti possibili sono quelli virtuali. Debutta oggi, alle 21.15, su Sky Documentaries (e in streaming su Now) un documentario che racconta quattro di questi giovani – Eva, Alessandro, Alessio e Davide —, entrando lì dove nessuno ha accesso: le loro camere. Essere Hikikomori. La mia vita in una stanza, scritto e diretto da Michele Bertini Malgarini e Ugo Piva mostra dunque le vite di chi non sa vivere fuori dal recinto che da solo si è costruito. Un malessere subdolo, le cui ragioni sono spesso difficili da riconoscere.
Lo sa bene anche chi dalla sua stanza è poi riuscito a parlare a tutto il mondo, Lorenzo Ostuni, in arte Favij. Seguito da oltre sei milioni di persone su YouTube, «creatore di contenuti web» da quando aveva 16 anni (oggi ne ha 26), Favij conosce bene l’impatto che può avere la realtà virtuale su quella reale. «Anche io a lungo non mi sono sentito capito. Succede anche agli hikikomori, persone che di fatto si sentono invisibili, inutili. Hanno perso la speranza, per questo è molto importante far capire loro che possono essere ascoltate». La psiche può innescare meccanismi complessi: «Io, ad esempio, faccio un lavoro splendido ma chiuso nella mia stanzetta. Mi capita di stare a lavorare notte e giorno a un progetto, a un video, perdendo la cognizione del tempo. E andare avanti così per un po’, senza uscire, per giorni, anche quattro, ricordo... Mi è successo poi di avvertire un senso di disorientamento alla fine, una volta terminato il tutto, in cui mi chiedevo: e adesso? Come impiego le mie giornate?».
Un malessere che, ammette, «di base ho sempre avvertito, in cuor mio. Da un annetto ho deciso di lavorarci su. Mi sono accorto ad esempio che per me il lockdown non è stato un problema: sono abituato a stare chiuso in casa. Nella fase dura io non sono uscito un giorno: né per fare la spesa o una passeggiata. Mai. E non era un problema».
Ed è così che uno degli YouTuber più amati ha capito viceversa di avere un problema: «Era come se tutte le emozioni si allineassero e avessero lo stesso gusto. Le mie giornate erano tutte uguali: mi alzavo, facevo quello che dovevo fare, guardavo un po’ di tv e andavo a dormire. Senza entusiasmi. Era depressione, certo». Per risollevarsi ha deciso di fare psicoterapia: «Mi ha dato gli strumenti per capire che ho già fatto molto più di quanto mi sarei aspettato. Sono una brava persona, questo deve bastarmi per non curarmi del giudizio della gente. L’esposizione aveva per me questo rovescio della medaglia e ho capito che la tecnologia mi portava lontano dal vivere come volevo».
Se gli hikikomori non avessero la tecnologia uscirebbero prima dal loro rifugio? «Forse. Io ho cercato di ridurre l’uso che ne facevo, preferendo la vita reale. Ora viaggio il più possibile. Di base ho imparato ad ascoltarmi: sembra un’ovvietà ma è molto difficile riuscirci». Quando ha capito che andava meglio? «Quando non chiamavo più ogni sera mio padre in preda a paure assurde: tutte ipotesi di cose che mai sarebbero successe». Un traguardo che lo spinge a dire a chi deve ancora fare quel passo «di non aver paura di farsi aiutare. E di guardare gli schermi solo quando qualcosa ci interessa davvero e non per inerzia. Se no è il momento di spegnerli e uscire».