Corriere della Sera, 29 gennaio 2022
Quirinale, le cinque giornate di Renzi
Si è messa male. Aria pesante nel cortiletto di Montecitorio (a parte l’allegria trattenuta di certi forzisti – curioso, eh? – che godono come matti per il tragico tonfo della Casellati).
Rapida occhiata: ecco Ignazio La Russa che ha appena ringhiato a Giovanni Toti: «Stai festeggggiàndooo pure tu...»; la leghista Laura Ravetto rimprovera a sua volta duramente un tipo alto, che subito china la testa; nuvole dolciastre di sigaro cubano; Marco Rizzo, l’ultimo comunista italiano, seduto a gambe larghe su una panchina davanti alla fontana, osserva tutti disgustato.
Poi al cronista di un tigì squilla il cellulare. È il suo direttore. Breve colloquio. Ripone il cellulare in tasca: «Il capo vuol capire come finisce. Dice che devo farmi una chiacchierata con Matteo, l’unico che può sapere qualcosa». Salvini? «Sei scemo?».
Cercare Matteo Renzi.
Farlo parlare, spiegare.
Del resto: è ormai da lunedì che Renzi sta sempre un po’ avanti nella narrazione di questa storia Quirinale. Lucido, spiazzante, mai consolatorio. Però niente stupore: perché se c’è uno che sa alla perfezione come si elegge il capo dello Stato, è lui. Stavolta, ovviamente, non può dare le carte. E ne è cosciente. Alla vigilia del voto spiegò: «Io il kingmaker nell’elezione del Presidente? Con Mattarella sì, questo giro no. Sette anni fa, ai tempi del Pd, avevo 400 parlamentari. Ora, con Italia Viva, ne controllo 40: è leggermente diverso». Così cerca di svelarci le carte che hanno in mano gli altri. E come dovrebbero giocarsele.
WhatsApp a chi si fida (adora spedirne, è velocissimo a scriverli: mezzo di comunicazione preferito). Brevi telefonate. E spettacolari ingressi in Transatlantico: eliminata l’odiosa pinguedine (prima di venire qui, al mattino presto, si infila una tutina di fibra nera da runner professionista e parte sparato correndo nei vicoli dietro piazza San Lorenzo in Lucina), abito blu modaiolo e quindi un po’ striminzito, un filo di abbronzatura (ricordo dei recenti viaggi d’affari in Arabia Saudita), passo sicuro, rallenta e si lascia consultare.
Di solito, è fulminante: «Serve un accordo, non siamo Sanremo» (materiale per articolo e titolo nella stessa frase). Pragmatico: capita l’antifona, intuita la palude, l’altra mattina ha sollecitato: «Mi auguro che la presidenza inizi a farci votare due volte al giorno: c’è una crisi tremenda in Ucraina». Decodificato: dobbiamo cominciare a contarci, ci sarà sicuramente qualche candidato da sacrificare, va capito se i capi dei partiti controllano i gruppi, e quanti franchi tiratori vi si annidano; con una sola votazione al giorno, a carnevale, saremo ancora qui (e non è detto che comunque vada diversamente). Sprezzante davanti ad alcune soluzioni proposte dall’altro Matteo. Tipo quando il Capitano ha cominciato a dire che avrebbe presentato una cinquina di candidati. «Siamo in Parlamento: questa non è una sala da super bingo». Ruvido, e però talvolta accudente: «Quello che comunque ha l’asso in mano è lui, Salvini. Deve solo decidere quando calarlo».
Su Draghi è, da giorni, il più netto. E il più incalzante. «È Maradona, il nostro fuoriclasse: dove vogliamo farlo giocare? Chiaro che può andare al Quirinale, ma solo attraverso un percorso politico, non un concorso a premi». Sull’ipotesi Elisabetta Belloni: «È il capo dei Servizi segreti. Ipotesi non percorribile. Il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi ha fatto un percorso così». Quando sente che il centrodestra ha deciso di puntare su Maria Elisabetta Casellati, va giù duro: «Andare avanti è difficile: a questo punto non escludo un Mattarella bis» (lo dice a Radio Leopolda, una web radio un po’ pirata, diretta da Roberto Giachetti, che qui nel cortiletto piace un sacco: per dire, s’è collegato anche Enrico Mentana).
Ormai è sera, le luci giallognole dei lampioni sulla piazza davanti al portone di Montecitorio, vento gelido: e tutti ancora intorno a lui, microfoni a mezz’aria. Sensazione: se vuole, Renzi riesce ad alzare il tasso di empatia. Meno spavaldo, meno «io sono io» del solito: tutto il suo talento politico riconosciuto – velocità di analisi e astuzia, spregiudicatezza e ragguardevoli dosi di cinismo – tutto sembra essere decisamente al servizio di una soluzione utile al Paese.
Un dettaglio: da giorni non nomina più Pier Ferdinando Casini. Che, alla vigilia, era il suo candidato ufficiale (no, ecco: tanto per dire).