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 2022  gennaio 29 Sabato calendario

Biografia di Pietro Rossi raccontata da lui stesso

Per incontrare Pietro Rossi ho ripreso in mano un suo libro apparso una quindicina di anni fa dedicato a Max Weber. Devo ammettere che fa ancora la sua figura questa ricerca dedicata a uno dei massimi pensatori del Novecento. Con Rossi ci vediamo una sera a cena insieme al demografo Massimo Livi Bacci.
Sono amici e soci dell’Accademia dei Lincei. Rossi è entrato nel novantaduesimo anno di età. Porta con disinvoltura il peso del tempo che ha vissuto. Mi incuriosisce la sua vicenda culturale, legata in larga parte al mondo tedesco e soprattutto alla “sociologia guglielmina” e gli chiedo, mentre sorseggia con gusto un vino rosso, se rifarebbe tutto quello che ha fatto, fino a diventare uno studioso a metà strada tra la filosofia e il mondo della vita. Mi risponde che le grandi scelte lui le ha compiute spesso casualmente e che se qualche vocazione affiora è solo dopo, solo quando le cose si dispongono in un certo modo. «È la bellezza e il terribile dell’esistenza, sapere che da qualche parte c’è un treno da prendere e che non sai quanto ti porterà vicino o lontano dalla meta», aggiunge. Ci salutiamo con la promessa di rivederci per continuare lo scampolo della nostra conversazione.
È sempre dell’idea che il caso governi le nostre vite?
«Mi pare che sia un punto di partenza. Non necessariamente di arrivo. Quando l’editore Einaudi pubblicò nel 1950 Le civiltà della storia di Arnold J.
Toynbee, frequentavo il secondo anno dell’università.
Scrissi, di mia sponte, una lunga recensione che Augusto Guzzo volle pubblicare sulla sua rivista. Ne ero orgoglioso e feci leggere quel testo a Nicola Abbagnano. Mi chiese se intendevo laurearmi su quell’autore. Gli risposi che non lo sapevo e che mi interessava la polemica intorno allo storicismo. Croce era morto da poco e avevo fatto in tempo ad assistere a una sua conferenza al Carignano di Torino. “Invece di occuparsi dello storicismo assoluto di Croce perché non prende in esame lo storicismo tedesco? Vedrà che le darà più soddisfazione” mi incoraggiò Abbagnano».
Seguì il consiglio?
«Lo seguii facendomi “guidare” da Raymond Aron, che fu tra i primi a interessarsi allo storicismo non come filosofia ma come sociologia. Quella scelta mi pose culturalmente fuori dall’idealismo allora imperante. Mi laureai nel 1952, lo stesso anno in cui morì Croce, e subito dopo scrissi il libro che sarebbe apparso da Einaudi, Lo storicismo tedesco contemporaneo ».
Perché considera così importante quel tipo di storicismo?
«Sia per la caratura dei suoi interpreti: Dilthey, Windelband, Rickert, ma soprattutto Weber; sia perché in qualche modo viene sottratto all’idealismo il dominio sulla storia. Parlai di storicismo tedesco contemporaneo per distinguerlo dallo storicismo “romantico” del quale fu un sostenitore Friedrich Meinecke mezzo secolo prima».
Il suo libro sullo storicismo quando uscì?
«Nel 1956. Oltretutto passai la prima parte dell’anno a Heidelberg con una borsa di studio».
C’era Gadamer?
«C’era sì. Ma c’era anche Karl Löwith. Entrambi allievi di Heidegger. Ma i loro destini furono diversi, segnati da una percezione differente del maestro».
Ricordo l’indignazione di Löwith per l’adesione di Heidegger al partito nazista.
«Giustificabile, visto che oltretutto esibiva sull’asola del risvolto della giacca il distintivo del partito nazista».
Una delle ragioni del dissidio con il maestro lo aveva portato a insegnare in Giappone.
«Andò via dall’Europa nel 1936, nell’ultimo periodo aveva lavorato a Roma. Stette in Giappone fino al 1941 e poi emigrò negli Stati Uniti. Löwith era ebreo. Tornò in Germania alla fine degli anni Quaranta. Ricordo quest’uomo, che si era guadagnato l’ammirazione con il libro Da Hegel a Nietzsche,attento ai processi naturali più che a quelli storici, che considerava secondari. Mi colpì il suo rispetto per la natura incontaminata».
Forse gli derivava da ciò che aveva appreso in Giappone.
«Lo stupiva di quel paese l’aver assorbito pienamente la modernizzazione occidentale conservando il proprio ethos antico. Una secolarizzazione che non corrispondeva al canone occidentale».
Löwith che rapporti aveva con Gadamer, l’altro allievo di Heidegger?
«Personalmente credo fossero buoni, ma filosoficamente non erano più così vicini. Ricordo che Gadamer insisteva sull’idea che la filosofia greca era rinata attraverso la filosofia tedesca. Era il punto di vista hegeliano poi ripreso ed estremizzato da Heidegger, su cui agì la potenza suggestiva con cui Hölderlin aveva ricondotto la lingua tedesca a quella greca. A me quella roba sapeva un po’ di fanatismo».
Chi vedeva ad Heidelberg?
«Una persona di cui divenni amico era Valerio Verra, di due o tre anni più grande di me. Anche lui proveniva dall’università di Torino e fu Luigi Pareyson a mandarlo in Germania per specializzarsi con Gadamer».
Lei ha avuto rapporti con Pareyson?
«Scarsi. Dopotutto avendo scelto Abbagnano era difficile assistere alle “messe” di Pareyson».
Mi incuriosisce l’uso della parola “messa”.
«Pareyson – indiscutibilmente una buona testa che ha formato personaggi diversi come Vattimo, Givone, Eco, Perniola – era un cattolico sui generis. Un cattolico che aveva fatto la Resistenza e che in seguito si spostò su posizioni religiose più forti. Non a caso fu un difensore del pensiero religioso tedesco».
Ma soprattutto dell’esistenzialismo tedesco.
«Aveva conosciuto e lavorato su Karl Jaspers e su Heidegger, quello però successivo a Essere e Tempo ».
Singolare che a Torino convivessero due figure come Pareyson e Abbagnano che dell’esistenzialismo avevano versioni opposte.
«In effetti l’esistenzialismo di Pareyson fu una risposta a quello di Abbagnano: il tragico contro il positivo. Ma quella diversa visione della filosofia divenne un conflitto anche accademico. Pareyson impedì per un decennio che Carlo Augusto Viano passasse da Magistero a Filosofia.
Abbagnano lo voleva come successore».
Sta insinuando che quando Viano scrisse “Va pensiero” - un pamphlet contro il pensiero debole e in particolare contro il suo maggiore interprete, cioè Vattimo - stesse consumando una specie di vendetta fredda?
«Sinceramente non ho mai capito la differenza tra un pensiero debole e un pensiero vago e ondeggiante.
Quanto a Viano, che fu mio amico, credo che cercasse, al di là delle facili polemiche, di demistificare certe posizioni filosofiche. In particolare quell’“heideggerismo” esoterico che cercava nella filosofia più che uno strumento di conoscenza razionale una sorta di passaggio obbligato verso la salvezza. Per tornare a Vattimo penso sia stato il volto anarchico del cattolicesimo di Pareyson. Però il libro su Nietzsche – Il soggetto e la maschera – ha una sua originalità».
Lei è sempre stato a Torino?
«È la città in cui sono nato. Mio padre ingegnere, progettava treni. Ho avuto genitori protettivi, ma sul rapporto tra loro preferisco sorvolare. Mia madre è morta relativamente giovane a 67 anni. Le immagini che ho di Torino, quelle più emotive, si riferiscono alla guerra.
Ricordo la città in fiamme, dopo i bombardamenti dell’ottobre novembre del 1943. Sfollammo nel Canavese a Castellamonte, il paese di Piero Martinetti. Tornammo l’anno dopo e nel 1945 mi iscrissi al liceo. Ho il ricordo nitido dell’insegnante di latino e greco: si chiamava Terracini, un’ebrea sopravvissuta a Birkenau».
Vi raccontò la sua storia?
«Seppi della sua vicenda soltanto anni dopo. Nel periodo in cui insegnò non disse mai nulla del suo passato.
Quando me ne parlò, lo fece in modo fattuale. Credo che avesse imparato a controllare le emozioni. Oltretutto, per molti era difficile credere che certe cose fossero davvero accadute. Mi disse anche che era riuscita a salvare le sue due piccole figlie affidandole a una bambinaia».
La sorprende la natura umana?
«Mi sorprende la facilità con cui si possa passare dal bene al male».
La filosofia aiuta?
«Vorrei che fosse così. Lo desiderava uno come Abbagnano che aveva assaporato la convinzione di aver raggiunto una certa saggezza. Da buon esistenzialista pensava che l’uomo è un essere finito che si distingue dagli altri enti per la possibilità di interrogarsi su se stesso, di porsi il problema del proprio posto nel mondo e del suo rapporto con gli altri. Riteneva che questo fosse il compito della filosofia».
Lo pensa anche lei?
«Occorre inserire la filosofia dentro una rete di conoscenze che sa guardare al mondo della storia e della società. Dopo il mio ritorno da Heidelberg, tradussi Dilthey e i saggi metodologici di Weber. Ebbi due offerte di borsa di studio: da Eugenio Garin a Firenze e da Antonio Banfi a Milano. Mi sembrò più stimolante quest’ultima, e Milano era logisticamente più comoda.
Conobbi bene Banfi e seguii le lezioni del sabato pomeriggio, quando tornava da Roma, dove era senatore del Pci».
Che ricordo ha di quelle lezioni?
«Erano prestigiose. La sua scuola contava le presenze di Enzo Paci, Giulio Preti, Remo Cantoni, Dino Formaggio.
Ma ricordo soprattutto una schiera di belle fanciulle in prima fila su cui si posava lo sguardo compiaciuto del professore».
C’era anche Rossana Rossanda tra quelle fanciulle?
«Non mi pare. Lei aveva quattro o cinque anni più di me. E svolgeva un ruolo importante nell’ambito della cultura milanese e comunista. Sposerà il figlio di Banfi, Rodolfo.
Alla fine degli anni Cinquanta andai via da Milano, ebbi la mia prima cattedra a Cagliari. C’erano Ernesto De Martino e la sua assistente Clara Gallini e c’era Aldo Capitini con il suo afflato profetico, un uomo dedito ai temi della pace più che della filosofia. Nel 1965 lasciai Cagliari per Torino, dove ho fatto il resto della mia carriera universitaria».
Dentro questa carriera brilla la stella di Max Weber.
Che cosa resta del suo pensiero?
«Resta il concetto di ascesi intramondana con cui rilegge il capitalismo moderno, resta il suo metodo di lavoro».
Delle due conferenze sulla politica come professione cosa pensa?
«Belle, ma occasionali. Le pronunciò alla fine della prima guerra mondiale. Per lui la grande politica doveva rifarsi a dei modelli di società per poter operare delle scelte tra alternative possibili. Morì nel 1920, di epidemia spagnola, troppo presto per vedere quel pensiero compiutamente realizzarsi. In passato aveva sofferto di forti depressioni che lo indussero ad abbandonare l’insegnamento. Visse gli ultimi quindici anni della sua vita sulle rive del fiume Necker. Nell’appartamento sopra al suo abitava il teologo e filosofo Ernst Troeltsch».
Weber ha legato il dispiegarsi della razionalità moderna al destino dell’Europa. È ancora attuale questo binomio?
«L’Europa ha smesso da tempo di essere un universo in espansione. Per alcuni secoli ha perseguito il programma baconiano del dominio dell’uomo sulla natura, un dominio fondato sul progresso del sapere che Weber riassunse nella forma specifica di “razionalismo”. Che cosa resta? Dovremmo cominciare a vedere con maggiore attenzione il modo in cui paesi extra-europei hanno adottato la nostra tecnologia, i sistemi di produzione, l’organizzazione burocratica, più raramente il pluralismo religioso, la libertà di culto e talvolta anche la democrazia rappresentativa però in versione illiberale».
Lei ha dedicato anche degli studi importanti al destino dell’Europa.
«Ma sa, non credo all’identità dell’Europa, mi pare un inutile tentativo di fare della cattiva metafisica. Esistono dei processi specifici e a questi vanno rivolte le nostre attenzioni».
Cosa legge in questo periodo?
«Sto leggendo libri sulle società delle formiche. È un mondo affascinante, di una ferocia terribile. E ora che sono vecchio penso che è a loro che assomigliamo».
In cosa crede una persona vecchia?
«Non lo so, ognuno ha il proprio mantra. Certamente non credo alla vecchiaia come all’età della saggezza. Ci trasciniamo dietro difetti, incomprensioni, pregiudizi.
Non mi descriva troppo tranchant. La vita è anche fatta di sfumature».