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 2022  gennaio 29 Sabato calendario

Gli anni folli del clan YSL

Sono passati quasi quarant’anni, conosco Stephan Janson da un mese, camminiamo in un corridoio col pavimento di marmo preceduti da un servitore berbero in gellaba bianca e turbante. Ieratici, identici a lui sono i giannizzeri in piedi sull’attenti contro gli archi delle porte. Il salotto in cui sbuchiamo è vasto, coloratissimo, poltrone e divani coperti di kilim, decine di mazzi di rose nei vasi, di rosa i petali nella fontana, opaline, quadri con soggetti orientali appesi su ricami, nicchie rivestite di mosaici, boiserie da dacia cechoviana. Un ometto appoggia il libro, si alza e viene a abbracciare Stephan che ci presenta. «Pierre, cosa legge di bello?». «È arrivata stamattina, la prima edizione della Recherche con dedica a Robert de Flers. Gli appunti a margine, con quella terribile grafia di Proust, sono emmerdants ». E ce li mostra. Entro nel mondo di Saint Laurent tra due parole cancellate da Proust su una pagina ingiallita.
È un mondo che ruota intorno a un pianeta misterioso, lui non si vede mai, al massimo di sfuggita (anche quel giorno è una silhouette bianca che appare e scompare tra due palme nell’aranceto), «Yves è stanco», «Yves sta male», «Yves riposa», «Yves si scusa», ma è un mondo pittoresco e seducente per il ragazzo lombardo che ero. Pierre Bergé vuole bene a Stephan da quando il mio amico era un bambino magro ossessionato dalla moda che veniva ammesso nel sancta sanctorum della Maison, lo studio dove il Maestro disegnava e fumava Kool al mentolo senza sosta: Pierre riconosce al primo sguardo l’annata di un Matisse e quella di uno Château Lafite al primo sorso; è stato amico di Jean Cocteau e Jean Giono, porta in trattoria il principe ereditario per consigliargli le letture, guida l’elicottero citando Montaigne, colleziona case come un imprenditore di oggi orologi. E poi ci sono gli astri, le stelle e i meteoriti che rendono questo mondo così diverso da tutto ciò che ho conosciuto nella mia vita italiana, dove le signore fanno le signore e i sarti parlano di sottane. C’è Madison, che studia paesaggismo e sembra una magnolia della sua East Coast, con quella cortesia alla Henry James e le allegrie fitzgeraldiane; c’è Loulou, la ragazza selvaggia più bella di un animale, una guardiana di oche che certe notti si trasforma in cometa e altre nella regina di Saba; c’è Betty che invece è sempre uguale a se stessa e si direbbe un disegno di sole linee rette, capelli, gambe, braccia – e ci sono moltissimi altri, Jacques, Pascal, Clara, Paloma, Fernando, Joël, Thadée, Maxime, attori, pittori, coreografi, decoratori, scrittori e buoni a nulla, tutti vestali del loro dio sfuggente e esigentissimo. La liturgia è complessa, ma uno solo il comandamento: s’amuser.
Ciò che rende l’universo Saint Laurent così diverso dal nostro pianeta dove si pagano le bollette e si va dal dentista è che i suoi abitanti si divertono e basta, si divertono sempre. Facendo un picnic nella radura di una foresta in Marocco o ballando sulla pedana del 54, “tirando” in un cesso, mentre nella stanza accanto un paio di avventizi giocano pesante con degli aggeggi troppo ingombranti o sedendo alla mensa di una duchessa che si fa leggere il menu dal cardinale, queste ragazze e questi ragazzi ridono, bevono, si drogano, scopano, spettegolano, e poi saltano su aerei e motoscafi e bevono ancora – quanto champagne alle nove del mattino – e poi ballano e ridono e si drogano e scopano di nuovo, in Nepal, a New York, dietro Siena, a Pigalle, a Jemaa el Fna, a Patmos e a Oxford, a Sintra, a Rio e a Deauville… E pensare che il motore di tanta allegria – è sempre Pierre a foraggiare –, la fonte di unalégèreté che susciterebbe l’ammirazione della salonnière più rigorosamente frivola del Settecento, sono i vestitini stampati che la sciura della zona Magenta compera in via Verri per andare al matrimonio della Nicoletta o del Bepi («Hai visto che bellino?». «Armani?». «Ma sei orba? È Yves»); pazza, l’idea che i Goya, i Picasso e i Brancusi della rue de Babylone così come i balli in costume in una delle tante Citere siano finanziati dal flacone di profumo che il ragioniere sposato regala per Natale alla sua micia («Opiùm… Mi sa che stasera noi due ci divertiamo vero Nini che ci divertiamo noi due stasera…») – ma che nostalgia, come usava divertirsi in quegli anni beati pre-tutto… La differenza tra il clan Saint Laurent e il resto del mondo – sì, era un clan proprio come quelli di Celentano e dei Verdurin – era che i suoi accoliti praticavano nel divertirsi una disciplina impervia, da flagellanti del piacere, da adepti del naturel. Adesso che ne scrivo, le analogie col Grand Siècle mi sembrano evidenti. Erano tutti sempre assolutamente e perfettamente “naturali”, con un monumentale turbante di taffettà o un girasole nel sedere, in smoking o in cuoio e catene: odio e disprezzo abissali per tutto ciò che eraendimanché, “carino”, propre, comme il faut… come disse Marie Laure de Noailles, una delle muse del Maestro, al povero Matthieu Galey che tremando la riceveva per la prima volta nel suo quartierino: «Ma caro, com’è pulito da lei!». Anche alle sfilate di alta moda, dove le donne sedevano in prima fila e gli uomini stavano in piedi in fondo, e qui si mettevano le direttrici lì le arabe, qui le ricche noiose lì le texane, gli eletti del clan li riconoscevi a colpo d’occhio, disinvolti, borsone buttate per terra senza complimenti, chiacchiere, cinguettii, scambi di baci, ammicchi tra copains, fra Nureyev che rabbrividiva nel giacchino di pantera regalato da Onassis e Deneuve a sonnecchiare dietro gli occhiali da sole. E Madeleine Castaing, con la parrucca in bilico sul cuscinetto di raso che dissimulava la piattezza del cranio – decrepita, minuscola, ciglia finte come setole di porco a incorniciare la dolcezza allucinata dello sguardo – nonostante il Courrèges definitivo era una delle più Saint Laurent delle ragazze Saint Laurent – François-Marie Banier, che cominciava una carriera di ereditiere pigliatutto destinata a catapultarlo sulle prime pagine, se la mangiava con gli occhi («Povero François-Marie, si prende per Cocteau e è soltanto un suo disegno» – e questa di chi è?). Lo stesso agio alle feste, alle colazioni, alle cene: tutti composti a mangiare le capesante, e lei, la baronessa, un’altra del clan, che saputo della presenza di un medico tra i commensali si alza e gli va accanto, si solleva la gonna (ovviamente di Yves), si cala le mutande, e appoggiati i gomiti sul tavolo gli chiede di guardarle l’ano che le brucia, e con un sorriso da brava bambina sotto i boccoloni alla Shirley Temple: «Coi dottori non bisogna avere segreti, me lo diceva sempre la mia Schwester».
Il Grande Assente era lui, Monsieur i grècque esse elle, il pupazzo sempre più gonfio che ogni stagione, dopo l’ultima clinica, l’ultima detox, l’ultima dieta, l’ultima storiaccia, per qualche minuto dondolava in doppiopetto di Caraceni sul podio, sorretto dalle sue circasse e dalle sue carmen a seno scoperto. Sarebbe ricomparso qualche anno più tardi a Tangeri, un vecchio signore pied-noir ossigenato e cortesissimo che passava la giornata tra pisolini e tè in pantofole in riva al mare. Nel frattempo il clan si era disciolto, morti tanti ragazzi di Aids o di droga o di Tempo Perduto, i più timidi reincarnati in professionisti, le ultime divine, afflitte dal doppio mento, sepolte al Père Lachaise o nelle case nel Midi. Con rare eccezioni. Per il compleanno di Hélène Rochas qualcuno aveva affittato un ristorante ma eravamo in pochi, tra cui Patrick e Dominique Modiano e le loro due figlie perfette. Ingresso di Hélène per ultima, turbinosa di veli e di diamanti, la gentilezza squisita con cui ringrazia il cameriere che la libera dello zibellino, va per gli ottanta ma quando entra cala sempre il silenzio. Vede Patrick seduto in poltrona, le ribrilla negli occhi l’antico amore per il suo ragazzo, gli si avvicina. Come un cobra o una fune recisa, perfetta, diritta di schiena, a capo eretto, gli si accoccola ai piedi, una fanciulla in fiore col pistillo del busto che emerge dalla corolla sontuosa dei tulle ricamati di perle. «Hélène, come sei elegante». «È un vecchio, un vecchissimo Yves». E con quel sorriso modesto, da venditrice di violette, o da basilissa Teodora che fa una confidenza al suo Giustiniano: «Una povera cosa… Ma non è divertente?».