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 2022  gennaio 29 Sabato calendario

Un libro sul corpo e sul mito di Arnold Schwarzenegger

Quella sera a New York è previsto un successone. Almeno duecento persone, molte più di quante ne assistano di solito ai dibattiti del severo Whitney Museum. Ma quel 25 febbraio 1976 la biglietteria va in tilt: si presentano in tremila. La serata s’intitola Articulate Muscle, The Male Body in Art: al centro della sala si esibiscono, nelle loro pose classiche, tre culturisti. Il più atteso è il campione di tutti gli ultimi concorsi: ha un cognome impronunciabile, il viso di un cartone animato, l’accento (se gli venisse chiesto di parlare) di Sturmtruppen. E un corpo mostruoso: Arnold Schwarzenegger trionfa nella posa del Pensatore di Rodin. Il format prevederebbe che i soloni della critica più hip commentino dal vivo quelle opere d’arte viventi, ma le signore (e i signori) di Village Voice e del New Yorker balbettano, sospirano a bocca aperta. Si fiondano a immortalarne l’icona Robert Mapplethorpe e Andy Warhol, ma ormai Arnold pensa ad altro. Quella sera infatti il videomaker George Butler è alle ultime riprese di un documentario che farà epoca: Pumping Iron esce l’anno dopo (a Cannes Arnold spopola in slippino sulla croisette) e sdogana il bodybuilding dalla «sottocultura» appiccicaticcia nella quale era sino ad allora relegato. Cinque anni dopo John Milius lo sceglie per Conan il barbaro; due anni ancora e con James Cameron sarà Terminator. Lo vorrebbe anche Kubrick, in Full metal jacket, ma Arnold è impegnato; per interpretare il sequel di Cameron spunta trenta milioni di dollari, per Hollywood un record assoluto.
Non è un caso che la figura del culturista si codifichi a fine Ottocento: quando si precisa pure, cioè, l’icona del dandy. Sculture che plasmano homo come pura esteriorità, forma quintessenziale, mezzo senza fine: Baudelaire definiva il dandy un Ercole senza fatiche da assolvere. Questa la chiave di lettura data al fenomeno culturista da Fabrizio Patriarca che, al suo quarto libro da 66thand2nd, torna ai livelli scintillanti del primo Tokyo transit: critico di formazione, con Pumping Arnold la scrittura saggistica si rivela quella a lui davvero congeniale. La leggibilità «pop» è assicurata dallo stratagemma di intercalare le riflessioni sull’«oggetto Schwarzenegger», «uno dei segni più carichi del Novecento», con una serie di gustosi siparietti presi live da una palestra di borgata, campionando le battute di allenatori e palestrati con verve non solo etnografica (condivisibile l’irritazione sull’«Acquario» in cui trasformano i set subalterni «i romanzieri italiani»), ma come attendibili portavoce della tesi di fondo (non può non essere citato Walter Siti, ma senza troppa devozione): della più fulgida delle culturiste (detta «la Transessuala», per un corpo che tende ormai alla perfetta androginia), algidamente indifferente al sesso come ogni vera statua vivente, ci si chiede «a cosa le serva quel culo di marmo», ma appunto quel culo «non deve servire» proprio a niente. È pura affermazione di sé, celebrazione gratia sui.
Nelle note finali, con preterizione dantesca («io non Enea, io non Paulo sono»), dice Patriarca che alla bisogna non ci vorrebbe lui ma gente come Roland Barthes, John Berger o Geoff Dyer. Ma è proprio lui, invece, il miglior emulo di questi maestri: grazie al punto di vista implicato nella materia (non lontana pure dal Carrère di Yoga). Se la saga di «Marcello» vede in Siti l’officiante del culto, il suo voyeur fanatico, dell’ultracorporeità culturista Patriarca è invece partecipe in prima persona. Anche lui si pompa infatti, seppure senza sperare di eccellere (piacerebbe sapere perché, allora; curiosità che resta insoddisfatta), non avendo accettato la prima regola non scritta della disciplina («questo sport si basa sulla droga, sull’alimentazione e sui pesi. Nell’ordine che ho detto. L’unica via per la gloria è il Lato Oscuro, poi vedi tu»).
Se non il suo corpo dunque, da sempre dopata è la scrittura di Patriarca: autore anabolizzato se ce n’è uno. Ma, come sempre nelle migliori forme-saggio, questa scrittura riflette anche su sé stessa. E dice cose intelligenti sulla «diversione del segno, l’implacabile spasso del postmoderno», cioè sulla «parodia»: quella che per esempio «mescola Arnold a qualche pensatore francese di quelli cripto-figo-strutturalisti & oltre» (con lo spiazzamento di livelli, cioè, che fu il primo Barthes a brevettare). Il culteranesimo pop di Patriarca va in brodo di giuggiole, si capisce, nelle ekphrasis del sorriso sprezzante di Schwarzenegger: il quale da molto presto ha fatto dell’autoironia il suo brand, ma già in Pumping Iron ha capito di essere il personaggio di sé stesso. Sino al capolavoro dell’intemerata su Instagram contro Donald Trump, all’indomani del quasi-golpe di Capitol Hill. L’ex governatore repubblicano della California (due mandati con record di suffragi, e niente Casa Bianca solo per la Costituzione che la interdice a chi non sia nato sul suolo americano) tenne nell’occasione un discorso serissimo, negli intenti e negli esiti: al cui ineffabile culmine, però, non esitò a sfoderare la spada di princisbecco di Conan. Puro genio.