Tuttolibri, 29 gennaio 2022
Sul Meridiano di Camillo Sbarbaro
«Bolle di sapone, Sottovoce, Trucioli, Rimanenze, Fuochi fatui… E se seguitassi: Scampoli, Briciole… Mi denigro o più umile è l’atteggiamento, maggiore la superbia?». Così scriveva Camillo Sbarbaro nel 1956 guardando indietro alla sua opera, elencando libri che già dal titolo ci restituiscono un disegno unitario, per quanto infinitamente rimaneggiato. Ma il punto è un altro. Il punto è il coefficiente di contraddizione del profilo del nostro, sintetizzato così bene nella frase sopracitata. Perché, infatti, sebbene Montale quanto Fortini fossero rimasti sorpresi nel confronto tra vita e opera del nostro (Montale prima di conoscerlo lo immaginava come un dandy piuttosto debosciato); e sebbene fisicamente tutto in Sbarbaro potesse ricondurre a un’idea di mitezza, così lontana dall’inquietudine in versi, resta il fatto che quella stessa contraddizione, espressa in forma interrogativa, ci riporta a un’onestà intellettuale che, francamente, supera quella di Umberto Saba, attento a velare ogni ambiguità sospetta. Forse è questo il grande fascino di Sbarbaro, una seduzione che travalica ciò che oggi potremmo giudicare di gusto un po’ rétro. Sia ben chiaro, un’onestà, un’innocenza che, ancora contraddittoriamente, riescono a dribblare l’abilità della finzione letteraria.
La complessità del poeta ligure è attentamente esaminata nell’introduzione a firma di Enrico Testa nell’occasione del monumentale Meridiano Camillo Sbarbaro. Poesie e prose, a cura di Giampiero Costa. Quasi 1800 pagine che raccolgono le opere pubblicate tra il 1911 e il 1967, disposte secondo la data di apparizione, e un’appendice di poesie e prose che raduna gli scritti finora apparsi su periodici e in alcuni casi rimasti inediti. E inediti sono altri documenti, come le lettere a Enrico Vallecchi che raccontano la storia della mancata edizione di Calcomanie, raccolta che avrebbe dovuto uscire nel 1940, ma bloccata dalla censura fascista. Si parte dunque da Resine, a cui segue Pianissimo che segna indubbiamente un salto avanti con una serie di cambiamenti stilistici che alimentano una nuova grammatica poetica, frutto di una «lacerazione» evidente.
Certo Sbarbaro non è il primo a esplicitare quella modalità di rapporto con il mondo in termini di impossibilità, alienazione e silenzio di un soggetto «separato dal resto della casa / separato dal resto della vita». Sbarbaro però è «grammaticalmente semplicissimo», come scrive Testa, sgravato da ogni simbologia, fede, trasfigurazione, solo «il regime dell’evidenza dell’essere», quello che lo porta a dirci che «gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto quello / che è, soltanto quel che è». Indubbiamente unico nella capacità di farci ascoltare il silenzio e il dolore che assume i suoi contorni salvifici rispetto alla consuetudine della vita. Ma anche qui, come nelle successive opere, Sbarbaro rimane aperto a quel dominio ossimorico che è anche la sua cifra stilistica, sicché quella ripugnanza per l’esistere si accompagna all’amore nei suoi confronti: «per tutto questo amaro t’amo, Vita».
Non diverso atteggiamento quello che riserva ai suoi simili, dove l’attenzione per i bassifondi riflette un codice empatico; e se talvolta c’è del disprezzo è quello che Sbarbaro riserva anche a se stesso in un gioco di identificazione che stempera ogni effetto giudicante, soprattutto nell’ultima produzione con la ricomparsa di elementi «consolatori», già filtrati da Leopardi. E poi ecco i francesi: Baudelaire, Rimbaud, Valéry, ascendenze che hanno poco a che fare con il maledettismo, piuttosto con una vicinanza tutta umana. Insomma figli della stessa sorte dove l’io poetico arriva a dichiarare la propria totale proiezione nelle creature più misere, artificiali e meccaniche.
Anche il tema del «padre», in Sbarbaro, non subisce il fascino del consueto ribellismo, alimentato da quella stessa onestà intellettuale che non ha niente a che fare con il cinismo. Ma gli elementi sono tanti, spesso nel segno di quelle «lacrime» che talvolta paiono il correlativo oggettivo dell’inganno leopardiano (il dolore è pur sempre un contatto – se pur illusorio – con la Terra!), anche se in questo caso la Natura non è matrigna, bensì unico motivo di conforto, tanto più coerente in quelle esistenze in sordina che erano i suoi Licheni.
«Estroso fanciullo» lo chiamava Montale, di un’innocenza autentica, per niente in contraddizione con la sua sensualità, con le osterie e i postriboli che amava frequentare. Forse il poeta più defilato dello scorso secolo, ma anche questo non è in contrasto con i suoi interventi su riviste autorevoli. Due le cose che aveva affrontato a fatica: il lavoro impiegatizio e la guerra. Due le cose a cui ha aderito totalmente: l’anima e il corpo, tutto nel segno di una realtà impenetrabile. Speculativo? Sì, ma sostenuto da una «grammatica semplice». Per questo continua a sedurci Camillo Sbarbaro, per questo è stato un’ottima alternativa a Montale, per una semplicità che non è mai così semplice, perché rappresenta più di altri le nostre (apparenti) contraddizioni, più vicino alla vita di tutti.