Tuttolibri, 29 gennaio 2022
Silvio Garattini: «La salute non è un brevetto»
Quando, finita la scuola superiore, si trattava di decidere cosa fare da grande, Silvio Garattini aveva le idee ben chiare. «È il desiderio di curare chiunque ne abbia bisogno che mi ha spinto a scegliere la facoltà di medicina, poi a dedicarmi alla farmacologia e quindi a fondare un istituto di ricerca non-profit. L’ideale di un mondo in cui tutti abbiano accesso alla salute è il filo rosso che mi ha guidato fin qui e che oggi mi spinge a chiedermi e a chiedere se sia sensato continuare a esercitare la proprietà intellettuale attraverso i brevetti quando in gioco c’è la salute e la sopravvivenza dei singoli o del mondo intero». Già, perché la salute è un bene fondamentale, un diritto, e «se un brevetto limita l’accesso a un farmaco salvavita o a un vaccino che può contrastare la diffusione di un virus, forse non stiamo garantendo il diritto alla salute come bene fondamentale». Il fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, al tema farmaci&brevetti dedica il suo nuovo libro: Brevettare la salute? Una medicina senza mercato, in cui traccia una strada, delinea un percorso. «Chiaramente graduale» dice. «Ho un lungo chilometraggio e non sono ingenuo da pensare che le cose si possano cambiare e risolvere con la bacchetta magica. Ci vuole tempo. La strada è lunga. Ma va intrapresa. Con l’idea che potremo arrivare a una società ideale in cui sia garantito l’accesso universale ai farmaci, alle cure, alla salute e in primo piano siano messi gli interessi dei cittadini, dei pazienti, dei sistemi sanitari e non il profitto delle aziende».
Un sogno?
«Be’, sognare è sempre possibile, e se sogniamo in molti, i sogni possono diventare realtà».
Professore, ad aprile 2020, lei è stato il primo firmatario dell’appello lanciato da Medici senza frontiere. Appello che sottolineava l’urgenza di uno spirito di solidarietà per affrontare la pandemia e, a tutela della salute, chiedeva la sospensione dei brevetti su farmaci e vaccini, una volta disponibili, per garantirne un accesso equo e sostenibile. Perché in un mondo globalizzato o ci vacciniamo tutti o non ne usciamo?
«Esattamente. Se lasciamo che il virus continui a circolare in qualche area del mondo, si svilupperanno nuove varianti che possono essere insensibili agli attuali vaccini: l’abbiamo visto con Omicron. È dunque evidente che vaccinare tutti, vaccinare i Paesi poveri, non è certo un atto di beneficenza, ma di sano egoismo, di buon senso. Quella che stiamo vivendo, in fondo, è la prima pandemia del mondo globalizzato. Oggi viaggiano le persone, viaggiano le merci e con loro viaggiano anche i virus e i batteri».
Covid-19 ha dunque portato alla ribalta una questione che tra addetti ai lavori dibattete da tempo: l’impatto dei brevetti sulla gestione della salute. Il monopolio nuoce alla salute: ostacola l’accesso universale alle cure?
«Se i brevetti impediscono l’accesso a farmaci fondamentali, sono un problema. A cosa serve un farmaco se non può arrivare a coloro a cui sarebbe più utile? I brevetti si sono rivelati nel tempo strumenti per garantire una forma di monopolio in grado di dettare in modo incontrollato i prezzi dei farmaci e quindi condizionarne l’accessibilità e la disponibilità. Perché se un farmaco ha un prezzo troppo elevato, non tutti possono permetterselo, di certo non i paesi a basso reddito, ma neanche i servizi sanitari pubblici che forniscono i farmaci gratuitamente ai pazienti».
Nel libro racconta il caso sofosbuvir, il farmaco innovativo per il trattamento dell’epatite C. Un caso emblematico per inquadrare la questione?
«Sì. Quando sofosbuvir è stato approvato, in Italia, secondo il ministero della Salute, c’erano circa un milione di persone con epatite C che ne avrebbero avuto bisogno. Ma il nuovo farmaco era così caro che sarebbero serviti decine e decine di miliardi per curarle tutte, così si è scelto di trattare prima i casi più gravi, dicendo agli altri pazienti che dovevano aspettare che la loro condizione peggiorasse per ricevere la cura. In pratica, l’opposto di ciò che andrebbe fatto: è stato negato un trattamento tempestivo».
Però sviluppare un farmaco richiede anni e anni di ricerca e la ricerca costa e va pagata.
«Certamente, però sul costo totale del farmaco la ricerca pesa solo il 7 % circa. Ben di più pesa il marketing: il 30. Fra l’altro in molti casi quando si tratta di farmaci costosi, i prezzi vengono mantenuti segreti attraverso accordi fra i singoli Paesi e l’industria farmaceutica produttrice. E i profitti sono stratosferici. Il punto è che così come non è considerata lecita una posizione dominante in altri mercati, altrettanto non dovrebbe essere accettato un monopolio nel campo della salute, e dovrebbero esserci le licenze obbligatorie sui farmaci».
Cioè?
«L’azienda che ha il brevetto deve dare licenza di produrre quel determinato farmaco ad altre aziende. Per esempio, se da sola non è in grado di far fronte alla produzione in grandi quantità - si pensi all’urgenza di avere vaccini anti-Covid - o perché impone un prezzo così elevato da non garantire l’accesso alle cure. Di fronte alla crisi sanitaria in corso, a cinque milioni di morti per Covid, al bisogno della collettività, le multinazionali del farmaco dovrebbero assumersi un impegno morale».
Non pensa che questa sua denuncia possa prestare il fianco ai no-vax che gridano al complotto e agli interessi di Big Pharma?
«Auspicare un sistema diverso, che metta al centro le persone e non il profitto, non significa negare l’importanza dei farmaci in generale e dei vaccini in particolare».
E tutelare la salute non significa medicalizzare la società: ma questa è la deriva della società contemporanea?
«Sì, si pensi a quanto spendiamo per gli integratori alimentari che fanno bene a chi li vende e non a chi li usa. Non c’è alcuna giustificazione scientifica».
Professore, questa pandemia ha fatto emergere (anche) l’importanza della medicina territoriale e l’assenza di lungimiranza nell’averne ridotto i finanziamenti. Come rimediare?
«Dobbiamo mettere il paziente al centro: se lo facciamo diventa chiaro ciò che dobbiamo fare. Per esempio aiutarlo a non andare, quando non necessario, al pronto soccorso o in ospedale. Quindi dobbiamo potenziare i servizi, dobbiamo mettere in piedi ambulatori con sei-sette medici che lavorino insieme, con il supporto di infermieri e assistenti socio-sanitari, e possano garantirne l’operatività sette giorni su sette. È fondamentale che gli ambulatori siano dotati di apparecchiature per fare analisi, senza dover mandare la gente in giro per ospedali e laboratori. Ed è importante potenziare la telemedicina: per facilitare il dialogo fra medico e paziente - che a volte ha solo bisogno di essere rassicurato - e il confronto del medico con gli specialisti».
Altra lezione: questa pandemia ci ha colti impreparati, non avevamo un piano pandemico, un protocollo da seguire.
«Eravamo impreparati e continueremo a esserlo se non prenderemo provvedimenti, sia in termini di piani e preparazione sia in termini di brevetti e proprietà intellettuale. Dobbiamo cioè avere luoghi, attrezzature e dispositivi pronti in caso di necessità e dobbiamo avere la possibilità di produrre i farmaci che servono nelle quantità necessarie per tutelare la salute di tutti. In fondo ci prepariamo per poter fronteggiare un attacco o una guerra. Abbiamo corazzate, aerei, missili, carri armati, personale militare. Ma non facciamo altrettanto per le emergenze sanitarie. È considerata una spesa preventiva inutile, ma non lo è: abbiamo sperimentato quanto costi l’impreparazione, in termini di vite umane ed economici. Covid-19 va considerato un campanello d’allarme: le emergenze sanitarie sono possibilità reali, ci sono state in passato e non possiamo pensare che non ce ne saranno in futuro. Bisogna essere preparati».
Anche sul fronte comunicazione, non trova? Comunicare bene in caso di crisi è fondamentale, invece abbiamo assistito e tuttora assistiamo a un valzer delle opinioni.
«A cui tutti, purtroppo, hanno contribuito. Se poteva essere accettabile nei primi giorni dell’emergenza, poi si doveva arrivare a un coro intonato. Invece così non è stato. Abbiamo gestito male anche la campagna di vaccinazione, dicendo un giorno una cosa e il giorno dopo il contrario. Se nel bel mezzo di una situazione che cambia è legittimo cambiare strategie, indicazioni, raccomandazioni, però limitarsi a fare annunci è ben diverso dal dare spiegazioni e motivare le scelte adottate. Se la comunicazione non è precisa, chiara e comprensibile si alimenta sfiducia. E così è stato. Il punto è che anche la comunicazione non si improvvisa, servono competenze e professionisti».
Professore, confida nel futuro?
«Io ho 93 anni e tutti i giorni vado in Istituto e ho la grande fortuna di confrontarmi con i borsisti, i dottorandi. Io confido in loro. Ho fiducia nei giovani. È da loro che possiamo aspettarci qualcosa di buono».