il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2022
I matti sono un’invenzione dei sani
Tutti la chiamano “Génie la matta”. Da piccola era vivace, poi, a 17 anni, avviene la “disgrazia”. Il muratore Ernest vuole sposarla, lei rifiuta, lui la violenta, lei partorisce Marie, la bastarda, e si trincera nel silenzio, ripudiata dai parenti di buon nome. Pazza non è, cova solo un dolore indicibile, la muta rabbia di chi è stato schiacciato, costretto, tradito.
Génie attraversa ogni dì le campagne francesi e la piccola Marie, che l’ama incondizionatamente, le corre appresso, ha il terrore di esser abbandonata, dimenticata. Senza mai rompere quell’assenza di parole tenta di accorciare la distanza fisica quanto più può, sempre un passo indietro, però. Stanno in una casa diroccata sotto cespugli di salici, mentre la bianca dimora di famiglia si staglia in cima, con un cipresso nero ritto verso il cielo quasi fosse un dito che giudica. In cambio di cibo o vecchi vestiti, Génie taglia siepi e legna d’inverno, zappa vigne, campi di piselli e fave in primavera. D’estate fienagione e vendemmia. S’ammazza di lavoro, accordandosi alle stagioni. Il giovedì, quando non c’è scuola, Marie va con lei. Raccoglie rametti per far fuoco, tulipani, songino e porri selvatici per cena. Quando le si avvicina lei le dice “non starmi tra i piedi”, alla fine della giornata “va a letto”, sempre lontana, gli occhi color delle lacrime, ripetendo come una litania “non ho avuto niente”. La risposta di Marie è sempre: “Hai me”. Sembra non bastare. Sono sole, vite ai margini, tra gente che nega calore umano e che dei matti ha bisogno per dirsi normale. A Marie infanzia e innocenza, come se orrore e sofferenza si passassero col sangue, vengono rubate con la profanazione del corpo. L’oltraggio per mano dello stesso uomo che spense il sorriso della madre la costringe a letto mesi, ammalata nell’anima. L’esistenza di Marie, al pari di quella di Génie, sarà costellata da gioie minime e flebili fiducie spazzate via dalla siccità, dalla guerra, dalla cattiveria, da un destino infausto. In particolare il secondo conflitto mondiale le ruba l’aviatore Pierre, che incontra in una notte alla stazione dei treni, quando è ormai giovane studentessa a La Rochelle, prova di emancipazione. Lui che le promette isole azzurre, profumate di sabbia, sole e frangipani, lui che ogni volta che parte le giura tornerà, lui che le dice “Avremo un figlio. Un figlio è la memoria della vita”. Anche la luce che s’accende nel petto di Génie, quella d’un secondo figlio non frutto di sopruso, si spegnerà con uno strappo ineffabile.
La dimenticata Inès Cagnati, di cui Adelphi pubblica ora Génie la Matta (1976), Prix des Deux Magots, nata nel ’37 in un paesino del dipartimento del Lot-et-Garonne, figlia di contadini italiani immigrati in Francia, svolse tutti i lavori da fattoria, poi divenne insegnante e scrittrice. Di quel periodo “mi è rimasto l’amore per la terra ma anche quello del silenzio e della pazienza”, disse in un’intervista del ’77. Sapeva di che cosa scriveva. Autrice di tre romanzi (questo è il secondo) e una raccolta di racconti, fu influenzata da Camus, Proust, Apollinaire, Salinger, Duras. Questa preziosa riscoperta è un’opera di “terribile semplicità”, “sconvolgente sobrietà”, devastante lirismo. Da lettori se ne esce provati, ossa rotte e cuore gonfio, eppur grati.
(Génie la matta, Inès Cagnati, Pagine: 184 Prezzo: 18 euro. Editore: Adelphi)