Il Messaggero, 29 gennaio 2022
Popolizio parla dello spettacolo "M. Il figlio del secolo"
La prima entrata, per entrambi, è con in testa il cappuccio da boia. Uno è il duce Benito, Tommaso Ragno. L’altro Benito il teatrante: Massimo Popolizio, che riapparirà in frac bombetta e passi di charleston. M. Il figlio del secolo, promette Popolizio che ne è anche il regista, è «estremamente cattivo, in tono leggero». Lo spettacolo prodotto da Piccolo Teatro, Teatro di Roma e Luce Cinecittà debutta allo Strehler di Milano il 2 febbraio, e arriverà all’Argentina il 4 marzo. Solo due tappe, l’impegno è grande: 31 quadri, 18 attori, una settimana per traslocare le scene. Con diversi rinvii causa Covid, non è stato facile arrivare alla prima. La preparazione è iniziata un anno fa, per «dare un segnale forte di rinascita»: non più solo monologhi o scenette a due.
Massimo Popolizio, 60 anni, che era stato Mussolini in Sono tornato e al cinema ha fatto spesso un politico (dallo Sbardella del Divo alla Notte più lunga dell’anno, appena uscito), ha preso M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, premio Strega 2019, ambientato dal 1919 al 1925, lo ha smontato e rimontato pensando a Brecht da una parte, al varietà dall’altra.
Dopo Ragazzi di vita e Furore, porta di nuovo un libro in scena.
«Il libro ti lascia più libertà, immaginazione. Con M. voglio fare qualcosa di trasversale, che unisca il mondo dei tanti lettori e quello del teatro».
Da regista, gli attori li maltratta o li coccola?
«Sono estremamente esigente e molto irruente, bestemmio, ci tocchiamo, mostro come fare. Le prove con me sono un pezzo di carne».
Lo dicevano anche di Strehler.
«Venne quando facevo al Piccolo Mon Faust. Poi mi scrisse. Ne ero felicissimo... finché scoprii che scriveva a tutti».
Com’è costruito M.?
«L’impianto è circense e ogni attore ha il proprio numero. In scena ci sono 40-50enni: scelta da Wwf, perché ormai in teatro, visto che non ci sono soldi, lavorano solo ragazzi. Ed è tecnologicamente complesso: botole, pioggia, video con i balilla, musica techno con gli onorevoli che ballano a Montecitorio».
A proposito di onorevoli: il Quirinale?
«Ho la nausea. Non ne posso più dei talk politici: è come una grande mafia in cui si finge di essere cattivi mentre sono tutti d’accordo».
Lo spettacolo allude all’attualità?
«Non metto l’evidenziatore sulla foto di Salvini. È un’allegoria sul potere».
Dal pubblico che cosa si aspetta?
«Che non sia indifferente, ma non in modo serioso. C’è una vena ironica, si gioca. Italo Balbo, per esempio, è un viveur che racconta un’esecuzione di estrema violenza come una barzelletta. Come quando abbiamo sentito parlare quelli del Famo i soldi sul terremoto: è un’Italia bassa, e noi in modo comico diciamo cose tremende. M. dice: Guarda questi uomini senza ideali, pronti a tutti i tradimenti, guardali prendere il sopravvento. Non siamo così lontani, con tanta gente pronta a cambiare idea per interesse da un momento all’altro».
La politica la appassiona?
«La passione un po’ l’ho persa. Come cittadino sento di avere obblighi diversi».
Quali?
«Non deteriorare il posto dove vivo. Sto leggendo un libro sulle balene spiaggiate piene di plastica. L’inquinamento è a livelli incredibili. Potrei fare uno spettacolo sulla fine del nostro modo di vivere, non più sostenibile».
Quest’estate, magari?
«No, vorrei tornare al cinema. Mi piace essere diretto, senza alcun tipo di responsabilità».