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 2022  gennaio 28 Venerdì calendario

Intervista a Silvio Soldini

«Devo proprio parlare di me?»
Be’, è una intervista, faccia lei.
«Sapersi raccontare è un’abilità. Perché un regista dovrebbe parlare della propria vita?».
Forse perché scavando nei suoi ricordi, veri o finti che siano, si ritrovano tracce della sua poetica, i fili invisibili dei suoi film?
«Allora le dico subito che da bambino abitavamo dalle parti di corso Garibaldi, a Milano. Un giorno presero a demolire una casa non lontana dalla nostra. La cuoca mi ha raccontato che io, all’epoca sei anni, mi incollai alla finestra a guardare quello spettacolo e rimasi così per giorni».
Vede? Abbiamo già individuato una caratteristica dei suoi film, compreso l’ultimo, «3/19»: una Milano che spesso viene vista dall’alto, come se si stesse vivendo un sogno.
«Questo forse dipende dal fatto che, sempre da bambino, mi piaceva vivere sugli alberi».
Un barone rampante svizzero-milanese?
«La mia famiglia aveva una casa sul Lago Maggiore, una villa assurda, mio nonno diceva che l’aveva fatta costruire una diva del cinema americano. Colonnati grandi, stile neoclassico, statue. E tanti alberi intorno. Io e mio fratello Emanuele ci arrampicavamo, costruivamo delle piccole casette sui rami e restavamo lì per ore».
Suo padre era dirigente di un cotonificio, sua madre lavorava in casa. La sua famiglia si aspettava tre figli con tre carriere molto diverse tra loro ma tutte ugualmente di successo?
«Non lo so. Giovanni ha scelto la vela, Emanuele è il direttore dell’Istituto Europeo di Design. E poi ci sono io. Che, dopo il liceo, non avevo la benché minima idea di che cosa fare».
E suo padre la iscrisse alla «Bocconi», Economia e Commercio.
«Un disastro. Poi passai a Scienze Politiche, ma ero una specie di testa vagante, perlopiù si era verso la fine degli anni Settanta, andavo alle manifestazioni senza nemmeno sapere per che cosa stavo manifestando. Sì, amavo il cinema ma non osavo nemmeno confidarlo a me stesso. Figuriamoci, non ne sarò mai capace, pensavo».
Chi la convinse a tentare?
«Pensi un po’, mio padre. Perché lui era, sì, la personificazione della legge in casa ma mi ascoltava e capì che quella poteva essere una strada. Volai a New York, feci due anni di scuola di cinema, studiai con un allievo di Scorsese, vidi più o meno seicento film. Poi tornai».
Il suo primo lungometraggio di successo è stato «L’aria serena dell’Ovest» con Fabrizio Bentivoglio, 1990. Come andò?
«Eravamo una squadra molto piccola, una famiglia. Accanto a me Luca Bigazzi e mio fratello Emanuele. Con Bentivoglio si girava ma alla sera andavamo a giocare a bowling, ecco».
Sin dai primi lavori era evidente la sua poetica: Bergman sì, Fellini no. Un fondo di ironia per piccole tragedie umane che si consumano nell’incontro tra persone diverse, no?
«Se devo citare un’ispirazione dico Antonioni. Da ragazzo frequentavo la cineteca di San Marco a Milano. Una volta diedi lì un appuntamento a un ragazza, chissà che cosa avrà pensato. Mi interessava il cinema fatto non con le immagini ma sulle immagini. E uno dei momenti più belli della mia vita fu quando, in una delle tante premiazioni romane di Pane e tulipani, incontrai Michelangelo assieme alla moglie Enrica. Lui non disse una parola, ma lei si avvicinò a me e mi disse: “Sai, ha visto il film, per lui è...” e fece il gesto del pollice in su. Che emozione».
«Pane e tulipani» vinse nove David di Donatello, senza contare tutti gli altri premi.
«Ricordo la cerimonia, fu un tormento. Io continuavo a essere chiamato sul palco e premiato, altri attori accanto a me nulla. Mi guardavano un po’ storto, io ero imbarazzato. Però il riconoscimento più bello me lo diedero al mercato di Roma, dal pizzicagnolo».
E cioè?
«Una donna in fila davanti a me esasperata per l’attesa urlò: “Ahò, guarda che mo’ faccio come quella de Pane e tulipani, me ne vado”».
Parlava di Rosalba, una donna che lascia tutto e prende a vivere la vita come un’avventura. Da dove viene questo senso del destino rocambolesco e strampalato che ha messo in molti suoi film, da questo a «Agata e la tempesta»?
«Non lo so. Forse da mia nonna, che leggeva tantissimo e ci diceva: “Non buttate il vostro cervello all’ammasso”, cioè ci invitava a non andare a manifestare con i ribelli degli anni Settanta».
Lei preferiva le avventure sentimentali?
«Sì ma che fatica avere a che fare con l’altro sesso. Il primo bacio fu un incubo, feci l’amore per la prima volta a sedici anni con una ragazza inglese, ricordo ancora il desiderio, sì, ma anche l’ansia. Ho sempre vissuto il cinema come un linguaggio diverso, forse per poter dire cose che altrimenti non sarei stato capace di dire».
Che cosa avrebbe voluto dire?
«Per esempio che amare è difficile, che parlare di sé è complicato, che le famiglie sono strambe, che se non fosse stato per mio padre io sarei arrivato al cinema molto tardi, forse mai».
Dopo il liceo
Mi iscrissi alla Bocconi: disastro. Passai a Scienze Politiche. Amavo il cinema ma non osavo dirlo a me stesso. Papà mi convinse a tentare
e volai a New York
Per alcuni lei è stato il contraltare di Nanni Moretti.
«E chi lo dice?»
Lo hanno scritto alcuni critici.
«Moretti mi chiamò quando uscì Pane e tulipani, mi chiese di vedere il film per il suo premio Sacher. Io presi le mie belle “pizze”, le bobine, invitai anche dei produttori e andai a Roma. Arrivato, mi dissero che Nanni se n’era andato di punto in bianco, il film voleva vederlo da solo».
Le ha dato buca, insomma?
«Sì, ma poi ci siamo incontrati di nuovo, pensi, dal benzinaio. La vita è strana, sì».
O assomiglia a uno dei suoi film.
«Anche l’incontro con Alba Rohrwacher a suo modo è stato assurdo. Io andavo in vacanza vicino al posto dove stavano Alba e la sua famiglia. Suo padre era disperato e mi diceva: “Ci parli lei con le mie due figlie, una vuole fare l’attrice, una la regista (Alice, ndr), ma come si fa?”. Be’, di certo non l’ho accontentato, perché ne ho scritturata una».
Ma non ha detto come vi siete incontrati.
«Alba mi lasciò sulla porta un barattolino di miele con un biglietto gentile. È una persona speciale, ti fa venire voglia di continuare a fare dei film con lei. Infatti con me ne ha fatti tre».
Uno dei quali è «Cosa voglio di più», un film difficile, sconfortante, in cui le condizioni materiali finiscono per soffocare un amore. Una volta lei ha detto che avrebbe voluto fare un film «alla Ken Loach», forse questo è quello che si avvicina di più?
«Forse sì. Ora le confesso una cosa: quando ho cominciato a lavorare a Pane e tulipani, io avevo già in mente di fare Brucio nel vento, film durissimo, tratto da un romanzo di Ágota Kristóf. Una mazzata, insomma, ma questo mi rendeva più leggero, mi faceva avvicinare alla commedia con più serenità. E così P ane e tulipani, finora il mio più grande successo di pubblico, critica e botteghino, lo affrontai come si affronta una commediola».
Addirittura.
«È che io ho sempre paura di scadere nelle commedie più trite e per questo tristi, di quelle che si fanno per fare soldi. È il mio timore, uno spauracchio che mi accompagna ogni volta che penso ad un soggetto più leggero. Pensare di lavorare ad un progetto rigoroso mi aiuta».
Nella vita vera le è mai accaduta una di quelle situazioni surreali che tanto ricorrono nelle sue commedie più riuscite?
«Più che surreale, direi un episodio drammatico. E c’entra l’acqua, a dimostrazione che mio fratello Giovanni è, sì, coraggioso ma io sono davvero spericolato qualche volta».
Racconti.
«Lago Maggiore, io e i miei tre figli, una canoa. L’obiettivo è di raggiungere Isolabella e tornare indietro. Lago calmo, nessun problema. Solo che ad un certo punto si alza un’onda, le condizioni del lago cambiano e la canoa si ribalta. Io pensavo ai miei ragazzi: indossavano il giubbotto, ma come fare a uscire da quella situazione? La canoa imbarcava acqua, non riuscivo a raddrizzarla, passò un aliscafo che manco ci vide e, anzi, rischiammo di essere tranciati. Poi finalmente una barca più piccola, un “ferro da stiro” grosso. Che ci vide e ci raccolse. Grappa per tutti, ci voleva».
Dunque anche lei è sedotto dall’acqua, come Giovanni?
«Altroché. Solo che a me capitano guai. Un’altra volta stavo nuotando al largo con la mia compagna di allora. Una corrente improvvisa, la roccia che già si vedeva in lontananza. Lei si dibatteva, non ce la faceva più. Anche quella volta pensavo più a lei che a me stesso, chissà perché».
Forse perché non voler parlare di se stessi è anche una paura del guardarsi, di osservarsi a distanza?
«Non so. Comunque la scampammo».
Lei ha mai pregato?
«No, non riesco. Il massimo che ho potuto fare è stato leggere con trasporto Il regno di Emmanuel Carrère, quel libro in cui lui racconta che per un certo periodo della sua vita è stato cristiano e nel quale sente il bisogno di scavare dentro questa condizione spirituale. Ma il suo è lo scavo di uno scrittore, quasi da storico. Io percorro altre strade, indago sull’umanità delle persone e sulla disumanizzazione che vedo».
E nel suo ultimo film, «3/19», Kasia Smutniak interpreta una donna che sale in alto sulla scala sociale ma poi un evento drammatico accaduto ad uno sconosciuto la induce a guardare intorno a sé e a «scendere», anche fisicamente.
«Un cammino complesso, fatto di sensi di colpa e di cambiamento. E quando cambi dentro, sembra che cambi anche il mondo che hai intorno: la città, il paesaggio, le cose».
Il prossimo film sarà una commedia?
«A me piacerebbe tanto fare un musical».