Corriere della Sera, 28 gennaio 2022
Quando la scuola snatura la propria vocazione
Invece di fare il suo mestiere, invece di fare di tutto per cercare di dotare gli studenti poveri del computer di cui sono privi, invece di fare in modo d’insegnare davvero a scrivere in italiano a centinaia di migliaia di giovani che continuano a uscire dalle sue aule incapaci di farlo, la scuola italiana insiste a sprecare energie e risorse nell’affastellare sempre nuove iniziative, nuove attività e nuovi progetti nefasti, con il solo risultato di snaturare la propria vocazione.
Tutto ciò – come accade spesso in Italia – grazie proprio a chi in teoria dovrebbe vegliare sulle sue sorti: al centro una cricca di alti burocrati ed «esperti» scervellati, sopra di loro un ministro in realtà loro succube perché ormai da anni sempre privo di qualunque autorità culturale e peso politico, e infine un Parlamento dove regnano l’incompetenza e la demagogia.
È stata infatti la Camera nei giorni scorsi ad approvare all’unanimità (all’unanimità: ecco dove vanno a finire i propositi «conservatori» della destra: nel consentire a quanto di più culturalmente eversivo si possa immaginare) una proposta di legge mirata «all’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico». Che cosa significa questa astrusa formulazione delle «competenze non cognitive», che cosa sono (mi piacerebbe sapere quanti degli oltre trecento deputati che hanno espresso il loro sì ne avessero una qualche vaga idea)? e che cosa c’entrano la scuola e il «metodo didattico»? Detto in breve vuol dire che d’ora in avanti nel corso del loro insegnamento i docenti dovranno fare in modo, secondo i fautori, d’inculcare e/o d’incrementare negli alunni quei comportamenti positivi e di adattamento che rendono capaci di far fronte alle evenienze più varie della vita quotidiana. E quindi addestrare all’«autocontrollo», alla «stabilità emotiva», all’«empatia», alla «fiducia in se stessi» e alla «resilienza», a «gestire le emozioni e lo stress», a «comunicare», a «prendere decisioni» e a «risolvere problemi».
Sono queste per l’appunto le cosiddette soft skills, al cui insegnamento/propagazione dovrebbe piegarsi la scuola per formare il carattere degli allievi. Ma non è questo ciò che in realtà la scuola ha sempre fatto? Sì, ma attenzione: finora essa lo ha fatto attraverso i saperi delle sue varie discipline, dispensando ai giovani le più disparate conoscenze e lasciando che poi nell’animo di ognuno di essi quelle conoscenze, i libri letti, i pensieri e le emozioni nati nell’aula scolastica durante ogni ora di lezione, s’incontrassero con la sua indole, la sua fantasia, il suo animo e fecondandole dessero vita a quella cosa che si chiama la personalità. Finora insomma la scuola è stata convinta che a formare il carattere dei giovani a lei affidati, a plasmare il loro modo di sentire e quindi d’essere, fosse essenzialmente la cultura che si acquisiva per il suo tramite. In ognuno di quei giovani in modo libero e spontaneo, secondo vie misteriose destinate a restare tali a garanzia per l’appunto della libertà e della spontaneità. E la migliore pedagogia ha sempre tenuto per fermo a questa concezione libera e spontanea della formazione umana nell’ambito dell’istituzione scolastica. Mai la scuola si è proposta di formare un tipo standard di individuo, di persona modellata secondo specifiche decise in precedenza come se fosse una macchina.
Ora però sappiamo che invece i deputati della Repubblica non la pensano così. Essi pensano, al contrario, che il carattere vada determinato fin dall’infanzia (non dimentichiamo che l’auspicata svolta didattica si applica a tutto il ciclo scolastico) secondo un format prestabilito di «skill», di «abilità». Abilità a che cosa? Lo avrebbero capito se avessero letto quanto predica da tempo il Centro di ricerca educativa dell’Ocse, che di questa svolta didattica è da sempre a livello europeo il fautore più indefesso. In sostanza abilità a integrarsi senza problemi nella società com’è (in particolare a quella sua parte che ha a che fare con il mondo del lavoro), ad adeguarsi con successo ai suoi precetti, a introiettare le sue norme sapendo «autocontrollandosi» e mostrandosi capaci di «risolvere i problemi».
Si realizza così il vecchio progetto di ogni totalitarismo: che la scuola non sia più in alcun modo un’altra cosa rispetto alla società, qualcosa di irriducibile ad essa perché altro evidentemente è il suo paradigma e altri sono i suoi parametri funzionali. Bensì che essa sia solo l’ambigua anticipazione della società stessa, il luogo dove soprattutto si accerti la maggiore o minore disponibilità di ognuno ad adeguarsi alle sue richieste. Sicché la scuola serva di fatto a gettare le premesse di un autentico controllo/condizionamento di massa: basta usare la parola magica «competenza non cognitiva» e il gioco è fatto: chi può mai essere infatti dalla parte dell’incompetenza?
Ma c’è dell’altro naturalmente: l’aspetto diciamo così «materiale» di tutta la faccenda che però riguarda – eccome – anche il contenuto. Infatti, al fine di istruire adeguatamente i docenti alla svolta didattica di cui si tratta la proposta di legge prevede un «Piano straordinario di azione formativa», finanziato da quell’abituale mucca da mungere che è ormai diventato il Pnrr, e appaltato all’Indire e all’Invalsi. Cioè ai due enti che da anni – in stretto collegamento con le centrali euro-internazionali della nuova ideologia educativa – sono la roccaforte di una concezione dei sistemi fondata sull’idea di tradurre in termini standardizzati e quantificabili non tanto le conoscenze quanto soprattutto un certo insieme di tratti psicologici degli studenti, di atteggiamenti o elementi del carattere, inclusi i sintomi clinici delle categorie «a rischio», per poi naturalmente intervenire in senso terapeutico. La verità viene così finalmente a galla. Le «competenze non cognitive» sono lo strumento perché la scuola perda la sua natura antica e sempre nuova. Perché smetta cioè di essere il luogo dell’apprendimento e della formazione civile e culturale delle nuove generazioni. E si trasformi invece in una generica agenzia dell’accudimento sociale al cui interno diviene sempre più largo uno spazio di psico-medicalizzazione volto al controllo normalizzatore della personalità dei suoi allievi.
Ormai impaziente, George Orwell attende accanto al telefono di essere chiamato da un momento all’altro a ricoprire l’ incarico di ministro dell’Istruzione della Repubblica italiana.