Medusa, 28 gennaio 2022
Liliana (o il caldo infernale in Argentina)
A Buenos Aires fanno dai 24 ai 46 gradi da una settimana. Gli argentini reagiscono come sanno far meglio in situazioni di crisi: memificare il disagio e presidiare Twitter a caccia di polemiche. Io sono chiuso in casa come tutti, con la fortuna di avere un condizionatore, benefit non da poco, pregando che non accada uno dei tanto temuti cali di corrente che toglie luce e aria per qualche ora; ma le voci del sottosuolo favoleggiano di tagli che possono durare giorni interi. In tanti casi l’unica fonte di sollievo è rappresentata dal ventilatore Liliana, ferrovecchio nazionale santificato dai meme e ormai famoso, poiché riscalda ciò che ha dietro di sé tanto quanto rinfresca ciò che ha davanti, oltre a produrre un suono simile a quello di una piccola motosega. Come Evita Peron, il Gauchito Gil e diverse Virgenes provinciali, Liliana è il cuore battente del paganesimo argentino, questa curiosa mescolanza di realismo magico, blasfemia guascona e inchino religioso che abbraccia tutta la cultura del paese. Liliana è una santa protettrice del popolo, che rinfresca come può. Non è perfetta, non è invincibile. Ma protegge chi non ha altre difese. Il mio ventilatore invece si chiama York ed è perfettamente laico, efficiente, silenzioso, asettico. Chiuso in casa da una settimana, privato di ogni piacere e incapace di fare qualsiasi altra cosa, passo le mie giornate con York a guardare film, fare la conta dei positivi con cui sono entrato in contatto e discutere su quando arriverà la pioggia. Lui non fa una piega e continua ad alitare i suoi 24 gradi – company policy, sotto non si scende – e io mi trovo a fantasticare su quanto vorrei invece essere richiuso con Liliana. Più rumorosa, fallibile, umorale, umana.
L’ondata di calore e i conseguenti cali di corrente sono solo un altro modo per rendersi conto delle differenze sociali conseguenti all’emergenza climatica. Chi può permetterselo scappa al sud, in Patagonia – termine aleph che chiude in bottiglia tutti i sogni di escapismo e avventura ma che ad oggi è un luogo piuttosto ammaestrato e apparecchiato per turisti – mentre chi resta in città si deve arrangiare con Liliana, risparmiando energie e cercando di farsi strategico. Le facce in città cambiano a gennaio, si fanno più tirate, battagliere, piratesche. Il quartiere diventa un po’ più sporco, devi fare più attenzione – salmodiando dal pulpito privilegiato di un expat europeo. Per la prima volta però la differenza climatica tra la città infernale di Buenos Aires e il paradiso bucolico dei laghi Patagonici si sta assottigliando, perché come successo nell’emisfero boreale l’estate scorsa, l’estate australe sta presentando il conto delle emissioni. Puerto Vilelas. Clorinda. Ituazangò. Virasoro. Esquina. Santa Rosa. Monte Caseros. Tapebicuà. Isla frente a Itatì. Colonia Carlos Pellegrini. Sembrano parole in libertà che Paolo Conte o Arbasino avrebbero potuto mettere in qualche villanelle sul suono del Sudamerica, ma sono invece una lista dei luoghi andati a fuoco nell’ultima settimana in Argentina, che si sommano agli incendi che vanno avanti da un paio di mesi e hanno devastato 12 delle 23 province. In un paese da sempre diviso tra Peronisti e un qualche, generico, fronte liberista la svendita della natura immensa del paese è una costante che ha accompagnato sia il governo dell’attuale presidente peronista Alberto Fernandez che quello precedente di Mauricio Macri, ex presidente del Boca Juniors eletto al grido di “trasformiamo l’Argentina nell’Australia. Vogliamo un paese normale”. Le riforme attuate in nome del paese normale hanno portato a un debito con l’FMI sopra i 44.000 milioni di dollari, un’inflazione al 50%, con più della metà del paese sotto la soglia di povertà. Oltre ad aver svenduto il mare argentino a Shell deviando la migrazione delle balene, aperto le porte alla costruzione della megaminiera di Chubut, che si accompagnerà a disastri immani al paesaggio e alle condizioni di vita dei locali, e permesso alla Cina di perpetrare indisturbata la monocoltura della soia in buona parte della Patagonia distruggendo interi ecosistemi, il governo sta privatizzando sempre più gli spazi verdi della città, dopo che la riserva naturale della Costa Nera – rifugio cittadino impressionante per varietà di flora e fauna – sta soccombendo a torri e appartamenti. La costa stessa è sempre meno accessibile. Se vuoi vedere il fiume, gli alberi, gli uccelli, le piante, le alghe, le tartarughe, i fiori, devi pagare un biglietto come per entrare in una discoteca, un bar, una spa, un ristorante, un parcheggio, un mini golf, una sala giochi, un chiringuito.
Sempre meno spazi verdi in città significa che chi può si trasferisce in zone esclusive che prima erano riserve o parchi naturali, e ci costruisce dei diorami dove vivere. In seguito al default economico del 2001 è diventato infatti sempre più frequente il fenomeno dei barrios cerrados, quartieri-riserva fatti da e per ricchi, che qui vengono chiamati chetos, dove hanno le proprie scuole, supermercati, campi da padel, banche, palestre, atelier. I loro fiori, i loro alberi, i loro animali. La loro natura.
Uno dei più esclusivi è il barrio di Nordelta, terreno di caccia di nuovi ricchi, narcos, starlette, ex calciatori, imprenditori e presentatori tv, salito alla ribalta per un audio rubato a una cheta che si lamenta dei vicini dicendo che:
Ho determinati codici di estetica visiva e morale e questa gente non è cattiva ma viene da quartieri visivamente non ideali. Non mi diverto a vederli al lago mentre bevono mate seduti su una sdraio di Mar de Plata – la nostra Rimini – e penso che così non posso riposare. Sono una donna normale a cui piacciono determinati parametri estetici e che vuole solo riposare, riposare visivamente.
Oltre a essere uno degli ultimi humedales – lagune – d’Argentina, Nordelta è un sacred ground faunistico che ha visto negli anni il progressivo sterminio di svariate specie di uccelli, caimani, serpenti, tartarughe, iguane, anfibi e roditori. L’ultima mattanza si sta giocando contro il carpincho – o capibara – il roditore più grande al mondo. Nordelta è costruita su una laguna abitata da capibara. Il disboscamento, la distruzione del loro habitat li ha portati sempre più verso i territori dei chetos; anche perché prima dell’incidente diplomatico era considerato parte della “Nordelta Experience” postare foto in compagnia dei capibara, mettendogli occhiali, cappelli, scarpe e portandoli a spasso come animali domestici.
Ad agosto 2021 la pace si è però interrotta. I 40.000 residenti di Nordelta hanno denunciato l’invasione dei capibara, ora arrivati a 3.500 unità nella zona: sono troppi, distruggono le nostre aiuole, non rispettano la proprietà privata, attraversano la strada senza guardare e mordono i nostri cani. I capibara sono così diventati l’avamposto della parodia di una guerra di classe combattuta sui social network per qualche settimana. Da qualche mese non si hanno più notizie, ma la probabile parabola sarà la stessa delle specie che li hanno preceduti: da simpatica mascotte della zona a minaccia da estirpare. La Direzione di Flora e Fauna della Provincia di Buenos Aires ha dichiarato di star sviluppando un piano di azioni indirette e dirette con l’obiettivo di ridurre l’alta abbondanza di popolazione della specie. Qualsiasi cosa significhi.
Qualcuno dovrebbe fare qualcosa – dico a York, mentre stiamo guardando l’ennesimo film nel giorno più caldo dell’anno: Woodland Darks and Days Bewitched – A History of Folk Horror. Un tentativo sbrodolato, esagerato ma potente di ricostruire la storia dell’horror legato alla terra, alla vita campestre e alle sue tradizioni, che sono per definizione pagane. Partendo dai 3 film capostipiti del genere – Witchfinder’s General, The Wicker Man e Blood on Satan’s Claw – usciti tra fine anni ’60 e inizio ’70, il documentario cerca di tracciare una parabola del perché un genere che nasce come di nicchia sia diventato così popolare negli ultimi 7-8 anni, con una new wave con film come The Witch, Midsommar, The Lighthouse, The Wailing e Hereditary. Quando il primitivo si trova messo alle strette sprigiona un’energia che squilibra la realtà, nonostante i tentativi dello status quo di normalizzarlo, ruggendo con una brutalità inaudita. E forse oggi come allora sentiamo un grande bisogno collettivo – magari inconscio – di storie che raccontino di una forza regolatrice che metta a posto la trama e sistemi le pieghe di questa realtà che non ci piace più. Apocalissi immobili, pandemie, tsunami, terremoti, incendi alti chilometri sono l’orrore coatto che non porta ad alcuna redenzione ma anzi, ci fa solo sentire una colpa che, come individui, non è possibile sopportare. Certo, l’idea di natura come purezza è una bugia che si spezza quando si inciampa sul primitivo, che valora più di tutto la sopravvivenza a qualsiasi costo, senza fare distinzioni etiche. È l’antico rituale del sacrificio, che uccide perché ricorda l’assassinio originale, il trauma che ha sparso il mondo in mille pezzi. Ma il richiamo di una giustizia cieca e divina è strutturalmente sensuale. È solo questione di tempo prima che qualche adolescente svedese o cilena inauguri il Climate Change Horror! grido a York. Pensa a un film dove capibara e adolescenti si coalizzano e fanno a pezzi tutti i chetos di Nordelta, sbudellano i loro pincher e schnauzer e rasano al suolo le loro fabbriche, scuole, supermercati, country club. E accendono fuochi, devastano i giardini all’inglese e divorano tutte le scorte di cibo nascoste nei bunker anti-atomici. Lasciano che la natura ripopoli il selvaggio, imparando finalmente a convivere, ristabilendo l’ordine delle cose!
York ignora il mio pitch, imbarazzato, e continua ad alitare la sua aria tiepida per la stanza.