La Stampa, 28 gennaio 2022
Cosa succede in Tunisia
Per dieci anni le cancellerie occidentali si sono affaticate a cancellare, dietro neppur troppo spesse dissimulazioni retoriche, quelle che un tempo chiamavamo le Primavere arabe. Operazione riuscita, con maggiori o minori affaticamenti, ovunque: in Egitto con l’avvento di un Mubarak meno bolso e più spietato di quello vecchio, in Libia con la spartizione di fatto del Paese in zone di influenza affidate momentaneamente a lillipuziani proconsoli in attesa di trovare una reincarnazione efficiente dell’indimenticabile Colonnello. In Siria si è provveduto con la opportuna permanenza al potere di Bashar Assad che offre ampie garanzie. Mancava all’appello termidoriano proprio la piccola Tunisia dove tutto era iniziato. Insomma bisognava trovare dopo dieci anni di penoso cabotaggio democratico infarcito di paralisi politica, stagnazione economica e sociale, corruzione, tentazioni jihadiste, un altro Ben Ali che facesse da esorcista e ristabilisse la nostra omertà di combriccole utilitarie: ovvero ordine, buoni affari, garanzie contro islamisti e soprattutto contro i migranti. Sì, a noi che siamo i messia dei diritti umani nel Terzo mondo piacciono i dittatori ma li vogliamo circoscritti e maneggevoli.
La via del potere personale
Ebbene ora l’uomo c’è: Kais Saied, presidente allergico a qualsiasi ostacolo che si frapponga alla sua volontà, ovviamente emanazione diretta e incontestabile del volere del Popolo. L’autocrate è in smania di autoaffermazione, marcia a passo da bersagliere sulla via del potere personale e della dittatura solitaria. Evviva! Dunque tutto è tornato in ordine sulle rive del Mare Nostrum, abbiamo adeguato le opinioni ipercelesti di democrazia ai costumi sotterranei di tirannide.
Per dare corpo a questa ennesima, e neppure originalissima, reincarnazione di caudillismo musulmano, vecchio scheletro a cui si da nuova polpa, Saied ha proceduto alla chiusura del parlamento a tempo indeterminato, alla revoca della immunità ai deputati molti dei quali sono finiti sotto processo, e crocifigge tutti coloro che lo criticano alle qualifiche di “traditori”, “ladri”, “corrotti” al soldo di poteri occulti. Promettendo ovviamente di non toccare libertà e diritti via via che li getta nella polvere, annuncia di voler trasformare in un vuoto secco, dissacrato e profano la faticosa Costituzione del 2014 costruita attorno a un equilibrio dei poteri che bloccasse appunto i tentativi possibili di un ritorno autoritario.
Ne annuncia infatti una sostanziale revisione. Vediamola dal vivo.
La “revisione"
Al posto del detestato Parlamento ci saranno fumosi alambicchi consultivi, «consigli locali» a metà tra i soviet e le ubbie del primo Gheddafi, che verranno sottoposti chissà quando a “referendum”. Operazione che già in se stessa appare come golpista perché dovrebbe esser votata dal Parlamento che non esiste più e sotto il controllo di una corte costituzionale che non è mai stata costituita.
Su quella Costituzione, peraltro frutto misto, precario, incerto tra varie astrazioni sono stati spalmati da questa parte del Mediterraneo chilometri di ipocrita inchiostro elogiativo («Vedete, pessimisti e miscredenti, nei Paesi arabi la democrazia è possibile»). Ai meritevoli di quella impresa sono stati distribuiti encomi e riverite patacche.
L’incarico alla Sapienza
Questa vicenda che ora si racconta si svolge a Roma e può sembrar minore, una sciaguratissima gaffe, ma scopre bene molte bugie d’occidente. Dunque: tra queste patacche, nel giugno dello scorso anno, si iscrive anche un dottorato di ricerca in diritto romano assegnato in palandre accademiche dalla università romana La Sapienza proprio al super presidente, Kais Saied, per il «contributo decisivo dato allo sviluppo del dialogo tra ordinamenti giuridici fondato sul rispetto reciproco e la valorizzazione dei diritti umani». Il 25 luglio il delittuoso Democratico realizzava il golpe assumendo i pieni poteri «per salvare la nazione». A chiudere il parlamento spedì un carro armato facendo appendere la scritta «sospeso» come un negozio che vendeva merce avariata.
Si constata, per attenuare: ma la università romana non poteva prevedere con un mese di anticipo la mossa golpista! Ai professori forse smarriti tra le delizie delle “res mancipi” e della “iurisdictio"’ non dovevano sfuggire le reiterate fatwe di Saied contro la fastidiosa sopravvivenza di partiti, parlamento, società civile che definiva «vecchie schiavitù di cui bisogna liberarsi», gli ispiravano fobìe e la sgangherata idea che «la democrazia sia la corrispondenza tra capo e il suo popolo che non sbaglia mai. In fondo la democrazia rappresentativa è in fallimento anche in occidente». Come dargli torto! Sono sfuggite ai giureconsulti romani anche altre ideuzze del presidente: favorevole alla pena di morte ad esempio o contro la depenalizzazione della omosessualità.
Vabbè, si può sorvolare su questi brutti segni premonitori, su questi imprudenti miscugli tra sacro e profano. Lo scandalo semmai è che da quel 25 luglio nessuno ha preso la unica decisione che consentirebbe di salvare il pudore politico e accademico, ovvero di sospendere o revocare il dottorato. Altrimenti il termine giuridico da utilizzare diventa quello di correità. Non è una scusa che una folta parte dei tunisini, come avviene a tutte le latitudini alle apparizioni dell’uomo della provvidenza che promette di far piazza pulita dei ladri (che certo non mancavano nella balbuziente democrazia del decennio) e degli affamatori del popolo, all’inizio applaudisse infervorata i sermoni di Saied. Tra loro, a guardar bene, anche i nostalgici di Ben Ali che intravedevano insperate occasioni di “revanche” affaristica. Nel frattempo però migliaia di tunisini rinsaviti sono tornati in piazza per protestare contro il presidente, richiamati oltre che dal partito islamista Ennahda anche dalle formazioni centriste e di sinistra riunite in un “collettivo contro il colpo di Stato”. Non è evidentemente quello il popolo a cui Saied riconosce la P maiuscola: manifestazione vietate «per covid», i gendarmi che fiutano l’aria e si sfrenano nei vecchi buoni metodi del tempo di Ben Ali, intimidazioni, manganellate, feriti, arresti, un sostenitore del partito islamista morto, un giornalista del francese «Liberation» picchiato.
Salviamo le apparenze
Nel frattempo però i vezzeggiamenti da parte delle cancellerie verso il raiss di Cartagine si sono moltiplicati, con qualche pudibondo invito a non esagerare nel nuovo corso. Insomma: salviamo le apparenze. In questo incensamento ci siamo distinti, con la visita del ministro degli esteri al palazzo di Cartagine, ministro incantato dalla splendida ed esemplare collaborazione tra i due Paesi. E poi ci sorprendiamo che nel Nord Africa al Qaida avanzi arruolando legioni di disgustati dell’Occidente.
Nonostante la boria da caid messianico e il raffinato arabo letterario che utilizza al posto del vernacolare “derja” tunisino (ma il popolo?) il Presidente è un personaggio in fondo banale, un travet senza fascino di questa epoca di illiberalismi populisti di gran moda su tutte le sponde, quando la proliferazione di larvate tirannidi sembra in grado di avvantaggiarsi sulle forze democratiche colpevolmente in declino o complici per interesse.
Le Terze vie miracoliste
Questo avviene più lentamente in Paesi di antica tradizione liberale, in modo rapido in quelli più fragili e recenti come la Tunisia. Le “rivoluzioni legali”, “il popolo che diventa sovrano”, che “ha sempre ragione’’, le Terze Vie miracoliste: quante volte purtroppo abbiamo sentito in un mondo di falsari queste bugie balbuzienti? In una rivoluzione dei gelsomini precocemente appassita nell’affarismo e nella corruzione inefficiente, irrompe il solito prepotente che proclama di esser l’unico capace di impedire che il popolo diventi ozioso, avido e lassista, ma che vuole semplicemente governare sul Paese da padrone, come se fosse a casa sua. Che si può fare in questa epoca incerta, tribolata, senza principi di inoppugnabile certezza? Come minimo non dar loro un dottorato e la mano. —