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 2022  gennaio 28 Venerdì calendario

Intervista al generale James Lee Dozier

Corrispondente da Washington
È la mattina del 28 gennaio 1982 quando le teste di cuoio arrivano in via Pindemonte 2 a Padova con un piccolo furgone verde. Hanno pistole e fucili d’assalto M-12. Alle 11,25 sono davanti alla porta di un appartamento di una anonima palazzina. La sfondano con un colpo secco. In una tenda montata in una stanza c’è da 42 giorni un generale americano ostaggio di un commando di cinque persone delle Brigate Rosse guidato dal poi pentito Antonio Savasta: quell’uomo è James Lee Dozier, classe 1931, generale di brigata della Nato. Il 17 dicembre un commando era entrato nella sua casa di Verona spacciandosi per idraulici: dopo aver immobilizzato la moglie legandola a un calorifero, avevano preso Dozier e, caricatolo nel bagagliaio di una macchina, lo avevano condotto a Padova. Il generale resterà per sei settimane nello stesso covo, legato a un lettino di ferro sotto una tenda da campeggio con le cuffie e musica ad altissimo volume. Sempre così fino al blitz del team del comandante dei Nocs Edoardo Perna durato 50 secondi. Dozier oggi ha 90 anni, la sua memoria è viva, i ricordi di quei 42 giorni densi di dettagli. Risponde al telefono dalla sua casa in Florida, seduto – racconta – davanti al “kidnapping corner”, l’angolo in cui ha raccolto foto e ricordi di quell’esperienza e libri sui Nocs. Descrive lo scatto con i presidenti Reagan e Pertini e quello con Perna. Simboli di una fulminea parentesi di vita che Dozier ha custodito e che ora – insieme alle altre pieghe dell’esistenza – è diventata un libro, “Finding my Pole Star”.
Generale Dozier, ha rifiutato contratti importanti per un libro subito dopo la sua liberazione, perché farlo adesso?
«Voglio lasciare una testimonianza ai giovani. Dopo il congedo nel 1985, ho intrapreso una carriera nel business dell’agricoltura: mi alzavo all’alba e lavoravo molto. Ma adesso che sono pensionato, ho deciso di scriverlo. Mi ha aiutato mia sorella che ha tenuto le foto e i ricordi dell’infanzia ad Arcadia e poi ho attinto alla mia memoria».
Sono passati 40 anni dal rapimento. Ha mai avuto incubi?
«Mai, fortunatamente. Sono stato capace di parlarne di continuo seguendo i suggerimenti degli psicologi. Tirare fuori le cose è il modo migliore per superare i traumi».
C’è qualcosa che le resta conficcato in testa? Un suono, un odore, una voce che la riporta all’appartamento di Padova?
«Si, i tentativi di Di Lenardo (uno dei carcerieri, ndr) di farmi il lavaggio del cervello».
Come faceva?
«Ogni giorno veniva nella tenda, mi parlava delle Br, mi dava cose da leggere che io gettavo via. “Scordatelo”, gli dicevo. Tornava ancora. Con un dizionario italiano e traducevamo parola per parola. Gli dissi che non avrei mai detto nulla sui segreti della Nato».
Non si arresero però…
«Tentarono di spiegarmi chi erano, in cosa credevano e cosa volevamo le Brigate Rosse. Alla fine Di Lenardo mi disse: “Se non riusciamo a portarti dalla nostra magari riusciamo a farti diventare neutrale».
Del blitz cosa le resta in mente?
«La rapidità, la pistola di una guardia puntata su di me. Era molto strano, non avevo mai visto armi lì. Improvvisamente la guardia venne disarmata. Poi la figura di un uomo che si spinge nella tenda. Temevo fosse una resa dei conti fra bande delle Br che si contendevano la preda, io. Invece quell’uomo si tolse il cappuccio, disse che era un poliziotto. Erano a venuti a prendermi e dovevamo andare via subito perché temevano che l’appartamento potesse saltare in aria. In un attimo ero seduto sul sedile posteriore di una macchina della polizia in mezzo al traffico di Padova. E andavamo veloci, schivando le altre macchine. Ci manca solo un incidente, pensai».
La fine dell’incubo le diede la forza di dire di no al presidente Usa. Dove trovò il coraggio?
«No no. Ho imparato a mie spese che al presidente degli Stati Uniti non dici mai di no anche se ti sembra di averlo detto (ride)».
Come andò allora il no-diventato-Sissignore?
«Un’ora dopo il rilascio, Reagan chiamò. Ero alla base di Ederle, Vicenza. Mi chiese come stavo e mi disse: “Crede di poter venire a Washington la prossima settimana per il National Prayer Breakfast? “Signore – risposi-– sono stato via per sei settimane, devo recuperare il lavoro arretrato”. Riattaccò».
Però ci andò e ci sono le foto dell’allora vicepresidente Bush che l’accoglie all’aeroporto di Washington…
«Dieci minuti dopo, telefonò il capo dello staff dello Stato maggiore: “Torna a Washington. Subito”. Insomma, il mio no al presidente non è stato proprio efficace».
Si ricorda la prima cosa che disse a sua moglie?
«"Ciao cara, bello vederti”. Ma sto tirando a indovinare, non ricordo» (grassa risata).
Dopo l’incontro con Reagan tornò in Italia, ma vi restò poco. Perché?
«I miei superiori ritenevano fosse meglio chiudere l’esperienza per ragioni di sicurezza. Allora si approfittò di una cena di Stato per il rimpatrio senza clamori: Pertini andava a Washington, anch’io fui invitato alla Casa Bianca. Non sono più rientrato in Italia».
Da militare intende…
«Certo, da militare, perché sono venuto spesso e ogni volta incontro i miei salvatori. Ora purtroppo a causa del Covid ho saltato gli ultimi anni, l’ultimo volo in Italia risale al 2018. Spero di poter tornare presto e ringraziare ancora il comandante Perna e tutti coloro che mi hanno salvato».
Ha mai più visto o sentito i suoi rapitori?
«Solo al processo di Verona del 1982. Erano nelle celle degli imputati. Ho fatto la mia deposizione. Poi mi hanno suggerito di andarmene. E così feci. So che qualcuno è diventato dottore, qualcun altro si è pentito e si è rifatto una vita».
La leadership è uno dei temi dei tanti interventi pubblici che tiene. Cosa dice ai giovani?
«Che oggi ci sono troppi follower e pochi leader». —