La Stampa, 28 gennaio 2022
Intervista a Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino che è stata assolta
«È trascorso così tanto tempo da quando è iniziata questa storia che non riesco ancora a credere di essere stata assolta. Ho vissuto sei anni da incubo, con addosso il peso di un’infamia terribile, non so nemmeno come descriverli. A questo processo, a differenza del primo, ci sono andata molto impaurita». Fausta Bonino, 60 anni, è la protagonista di una vicenda giudiziaria incredibile: nella primavera del 2016 fu arrestata con l’accusa di aver provocato la morte di almeno dieci pazienti dell’ospedale di Piombino, dove lavorava come infermiera nel reparto di Rianimazione, deceduti in seguito a un’overdose di eparina (un anticoagulante). Nel 2019 è stata condannata all’ergastolo in primo grado per omicidio plurimo volontario relativamente a quattro dei dieci episodi contestati inizialmente. Secondo il Gup di Livorno, infatti, tutti gli indizi di colpevolezza sarebbero stati tenuti insieme dalla «costante Bonino», ovvero dal fatto che la donna sarebbe stata l’unica sanitaria presente nel momento in cui venivano somministrate le dosi letali di eparina. Lunedì Fausta Bonino è stata assolta con formula piena dalla Corte d’assise d’appello di Firenze per non aver commesso il fatto (anche se è stata ritenuta colpevole di ricettazione, con pena sospesa, perché durante le perquisizioni venne trovata in possesso di alcuni farmaci dell’ospedale).
Signora Bonino, è passato qualche giorno dalla sentenza. Come si sente?
«Purtroppo male, sono chiusa nella mia casa di Piombino e non ho festeggiato nemmeno con una passeggiata. Da martedì ho cominciato ad avere la febbre a 38,5 e il raffreddore. Mi sono tenuta a distanza da tutti sperando che passasse ma domani (oggi, ndr) andrò a fare un tampone perché temo che sia Covid».
Un brutto risveglio dopo la gioia di lunedì. Cos’ha provato in aula?
«Il giudice ha letto tutti gli articoli del codice ma io non ho sentito la parola assolta e lì per lì temevo di aver capito male. Poi l’avvocato Vinicio Nardo mi ha guardato e mi ha detto: “Perché piangi? Lo sai che sei stata assolta?”. In tribunale con me c’erano mio figlio Andrea, che fa il medico a Firenze, e mio marito: erano contenti matti. Loro mi hanno sempre detto che sarebbe andata bene, ero l’unica molto pessimista».
Qual è stato il momento più duro di tutta questa esperienza?
«Purtroppo sono stati più d’uno: l’arresto, la prigione e la sentenza di primo grado».
È stata rinchiusa per 21 giorni nel carcere don Bosco di Pisa…
«Di quel periodo ricordo che l’unico momento di felicità sono state le tre volte che ho visto mio marito e il mio figliolo. Sono stati giorni sconvolgenti, non sapevo nemmeno se era realtà quello che mi stava capitando. Sono cose difficili da descrivere con le parole…».
A proposito di parole. Quali sono state quelle che le hanno fatto più male in questi sei anni?
«Quelle dei Nas durante il primo interrogatorio nell’ottobre del 2015. Un carabiniere, prima di accendere il registratore, mi ripetè per tre volte: “Si ricordi che se parla oggi la posso aiutare, da domani non potrò più”. Poi, invece di interrogarmi sulla questione per cui mi avevano convocato, hanno cominciato ad andare indietro nel tempo e a chiedermi di tutte queste morti avvenute in ospedale. Avevano un sacco di cartelle davanti».
Le testimonianze di alcuni suoi ex colleghi durante il processo hanno contribuito a smontare le accuse nei suoi confronti chiarendo che chiunque poteva avere accesso al reparto. È riuscita a parlare con loro in questi giorni?
«Non hanno smontato nulla, hanno testimoniato la verità. Loro, come tutte le persone che mi conoscono, mi hanno sempre ritenuta innocente. In questi giorni ho avuto un sacco di manifestazioni d’affetto: dal sindaco di Saliceto in provincia di Cuneo dove sono cresciuta ai conoscenti di Mondovì dove ho fatto le scuole, e poi ovviamente da Piombino e dall’isola d’Elba dove vivo dal 1980. La gente mi chiama e mi dice: “Finalmente è finita”. “La verità è venuta fuori"».
Ha mai avuto in questi anni contatti con le famiglie dei pazienti morti?
«Ho incontrato solo la famiglia di un signore che si era costituita parte civile. La moglie e la figlia hanno partecipato a tutte le udienze del processo d’appello e mi hanno fatto molta pena. Non ci siamo mai parlati perché io non ho osato avvicinarle e nemmeno loro l’hanno fatto. Io credo che non si possa più sperare che queste famiglie trovino la serenità e mi dispiace perché temo che non sapranno mai la verità».
Cosa pensa di fare adesso?
«Dovevo andare in pensione due anni fa. Visto che sono sospesa dal servizio ora spero soltanto che mi riconoscano almeno i contributi per andare in pensione. Non so se sarà necessario aspettare l’eventuale ricorso in Cassazione».
Ha qualche sogno nel cassetto?
«L’unica cosa che voglio fare è stare con i miei figli. Appena starò meglio andrò a Firenze dal più grande. Poi tra un po’, Covid permettendo, voglio andare anche a Parigi a trovare il “piccolino”. Ho due figli straordinari e adesso voglio godermeli come negli ultimi anni non sono riuscita a fare».
Ha qualche consiglio per chi sta vivendo una situazione simile a quella che ha vissuto lei?
«Di avere tanta, tanta, tanta pazienza. Alla fine credo che la verità venga sempre a galla. E lo dice una che era rimasta disgustata dalla giustizia». —