La Stampa, 28 gennaio 2022
Il diesel con inquinanti meno nocivi di quelli presenti nell’aria
Una lotta contro i mulini a vento. Dice proprio così Vincenzo. E spiega: «Nel laboratorio stiamo raggiungendo risultati incredibili. Ormai abbiamo portato il common rail a una tale punto di sofisticazione che gli inquinanti emessi dal nostro diesel sono meno nocivi di quelli presenti nell’aria. Un motore che non solo non sporca ma pulisce». Risultato straordinario, impensabile solo pochi anni fa. Ma bisogna dirselo: è tutto inutile. «Lo so, è inutile. Ormai hanno deciso che il diesel è morto».
Se ci fossero davvero i mulini a vento in viale degli Oleandri, zona industriale di Bari-Modugno, girerebbero vorticosamente in questa giornata di fine gennaio con il vento freddo che soffia dall’Albania. Vincenzo racconta la fine di un sogno e di un orgoglio. Qui, alla Bosch, un ingegnere barese, Mario Ricco, che di Vincenzo era il diretto superiore, ha messo a punto un sistema per rendere più efficiente il diesel. Era il ’92 e nessuno ci voleva credere. Mario oggi ha 81 anni e rievoca quell’impresa dalla terrazza di un albergo, guadando i tetti di Bari: «Non sono un inventore pazzo. Non è che uno si sveglia alla mattina e ha l’illuminazione. In meccanica non è così. Ci ho messo anni di calcoli per rendere utilizzabile il common rail. Poi è stato montato sui motori diesel di tutto il mondo». Di questa epopea Gianni, 48 anni, conosce poco: «Solo un po’ per sentito dire». Ma una cosa per lui è chiarissima: «Se chiudono il diesel centinaia di noi restano a casa. Io ho due figli, vanno alle medie. Come farò a mantenerli se perdo il lavoro?».
Alla Bosch di Bari lavorano oggi 1.700 persone. Negli anni d’oro erano 2.500, ricorda Donato Pascazio, segretario della Fim provinciale. Nei giorni scorsi ci aveva dato appuntamento con un gruppo di operai e ingegneri davanti al cancello della fabbrica: «Stiamo aspettando una comunicazione dell’azienda. Dati ufficiali non se ne danno. Ma tutti temiamo che il futuro sarà fatto di esuberi, e non pochi. Nei prossimi giorni l’azienda comunicherà i suoi piani». Le previsioni di Donato si sono avverate ieri: gli esuberi dello stabilimento sono 700. Da fabbrica di eccellenza a bomba sociale. Quasi mille posti di lavoro in meno non sono pochi in un distretto economico come quello Bari: «Anche noi in realtà stiamo aspettando che l’azienda metta in chiaro i suoi piani», spiega Alessandro Delli Noci, assessore allo sviluppo della giunta regionale di Michele Emiliano. Non mancano i progetti industriali che potrebbero in futuro assorbire una parte dei lavoratori in eccedenza in fabbriche come la Bosch: «Abbiamo firmato di recente un accordo con Leonardo per realizzare vicino a Taranto il primo spazioporto italiano per le partenze delle missioni spaziali europee». Ci sono progetti, investimenti ma c’è soprattutto il problema di riconvertire le persone. E questo è il nodo principale che l’azienda dovrà sciogliere nei prossimi anni insieme al governo (coi fondi del Pnrr) e le istituzioni locali. I vertici dello stabilimento lo hanno lasciato intendere nelle scorse settimane in incontri informali. «L’85% di chi lavora in questa fabbrica è addetto al diesel», spiega il sindacalista Pascazio. Quanto tempo ci vorrà per riconvertire le persone e formarle per altri lavori? Quattro o cinque anni, e non sono pochi. Chi li pagherà in questo periodo?
Quella della Bosch non è una storia isolata: sono migliaia le fabbriche italiane legate al motore a scoppio che rischiano nei prossimi mesi di finire gambe all’aria. «La transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue», aveva detto mesi fa, in un’intervista a La Stampa, il ministro Cingolani. Eccolo qui, nello stradone dell’area satellite di Modugno, lo scenario realizzato. È tutto nelle parole e soprattutto nello sguardo rassegnato di Gianni: «Da 25 anni faccio il magazziniere in questa fabbrica. Mi mancano 15-20 anni alla pensione. In famiglia sono l’unico che porta la busta paga. Se chiudono, che facciamo noi quattro? Di che cosa viviamo?». Per lui e per molti altri la fine del diesel è la fine di un mondo: «Mio padre lavorava in questa fabbrica. Quando è uscito ha lasciato il posto a me. Per noi la Bosch è un’azienda di famiglia».
Sulle vetrate della fermata dell’autobus qualcuno ha scritto a caratteri cubitali: «620 licenziati. In esubero sono i profitti». Cifre che ora vanno aggiornate. In peggio. Ma questa volta l’avversario non è, o non è solo, il padrone. Questa volta dall’altra parte della barricata ci sono gli ambientalisti europei che hanno spinto Bruxelles ad adottare la linea dura contro i motori a gasolio. Ma come si fa a scioperare contro Greta? Non si può, e infatti nessuno lo fa. Chi teme per il lavoro, come Gianni, chiede solo un’alternativa, non si infila in discussioni filosofiche su ambiente e industria. E per l’ambientalismo politico italiano, storicamente scarso di cultura industriale, la sostituzione dei motori a scoppio con quelli elettrici è un gioco a somma zero in cui uno vale uno. La realtà è drammaticamente diversa: su quattro addetti diretti alla produzione del motore a scoppio se ne salverà uno solo sulle linee che costruiranno il motore elettrico. Chi si farà carico del futuro degli altri tre? È o non è questo un problema anche degli ecologisti?
Saverio è un ragazzo trentenne. Non tanto giovane da partecipare ai cortei di Friday for Future ma abbastanza per avere una solida coscienza ambientalista generazionale. Premette: «Oggi il cambiamento è necessario. Non si può mettersi contro questa tendenza. Piuttosto la domanda è: dobbiamo chiudere la produzione del diesel per cambiare davvero? Perché, vedi, i discorsi che si sentono sono contraddittori. Non è detto che il diesel di oggi, quello che studiano nei nostri, laboratori inquini di più di altri motori. Saverio ha fatto un’altra scelta: «Con un gruppo di operai stiamo producendo i motori elettrici per le ebike». Un progetto che Bosch ha avviato da tempo, ben sapendo che un giorno il diesel sarebbe diventato un ricordo. Ma il motorino elettrico delle biciclette assorbe poche centinaia di dipendenti: «È una strada interessante, la diversificazione verso l’elettrico», dice Donato, il sindacalista. Ma aggiunge: «È illusorio pensare che sia sufficiente a trovare un’alternativa alla missione della Bosch di Bari».
C’è un problema di occupazione, certamente. Ma non solo. La produzione di un motore elettrico è relativamente povera, non presuppone elevati standard di innovazione. Anche se tutti i 1.700 dello stabilimento venissero riconvertiti a produrre ebike, il patrimonio di conoscenza che nei decenni si è accumulato nella fabbrica dove è nato il common rail andrebbe perduto. Mario Ricco non si rassegna: «Certo, oggi la bici elettrica è conveniente. Costa poco produrla e si vende a 3.000 euro. Il margine di guadagno per ogni pezzo venduto è molto più alto di quello che garantisce un motore a scoppio. Ma io non credo che andrà a finire così». Anche Ricco combatte una battaglia che sembra perduta. Una possibilità però c’è: «Oggi tutti pensano all’elettrico ma io credo che il futuro sarà nel motore a idrogeno. E si può studiare un modo per alimentare ad idrogeno i motori diesel di oggi. Così non si perde la tecnologia e si abbattono le emissioni». Una possibilità, chissà quanto praticabile e in che tempi. Si ragiona sul futuro ma il problema grave è adesso: che cosa consigliare oggi a chi rischia di perdere il lavoro? La ricetta di Ricco sembra stravagante: «Io ho 81 anni. Ai ragazzi consiglio di andare sempre in giro con una lettera di dimissioni in tasca». Una lettera di dimissioni? «Certo. I cambi di tecnologia oggi sono molto rapidi. Non durano più una generazione come una volta. Adesso tutto cambia dopo 5-10 anni. Non puoi illuderti di fare lo stesso lavoro per tutta la vita, ereditandolo da tuo padre. Devi capire prima dell’azienda quando il tuo mestiere sta diventando superato e cercare un altro posto, migliore, prima che sia troppo tardi. Ecco a che cosa serve la lettera di dimissioni. A non farsi superare dai cambiamenti. Quanti dei 1.700 della Bosch di Bari saranno capaci a giocare d’anticipo? —