Il Messaggero, 28 gennaio 2022
Intervista a Paul Smith
«La sua è una storia di successo dell’estro britannico, della creatività e dell’imprenditorialità. Ha lasciato la scuola senza qualifiche, ed è passato dalle umili origini in un piccolo negozio di Nottingham per costruire l’impero che ora si estende in 52 Paesi. Come presidente e designer, è ancora coinvolto in ogni aspetto e mantiene una quota di controllo dell’azienda che ha fondato nel 1970, consentendogli individualità e libertà». Così, una nota ufficiale di Buckingham Palace, ha spiegato il motivo per il conferimento del titolo di Companion of Honour a Paul Smith: la cerimonia si è tenuta due settimane fa, con il principe William a consegnargli il titolo, consentendogli l’ingresso nello stesso esclusivo club che ha già tra i suoi membri l’attrice Maggie Smith, il divulgatore scientifico David Attenborough, l’architetto David Chipperfield, Paul McCartney ed Elton John. L’onorificenza non è però l’unico titolo che Albione gli ha conferito: nel 2000 è stato fatto Knight Bachelor dal Principe Carlo, mentre fu la stessa regina Elisabetta a consegnargli nel 1993 il ruolo di Commendatore dell’Ordine britannico. Titoli di cui Smith gioisce, anche se, al momento, la sua prima preoccupazione riguarda il guardaroba che sfoggeremo la prossima stagione fredda.
La sua ultima collezione è ispirata al cinema, con stampe che celebrano i cartelloni vintage. Quali sono i film che, da ragazzino, l’hanno più colpita?
«Quelli che ho visto quando avevo 18, 19 anni, ed ero assiduo frequentatore del cinema d’essai di Nottingham: il neorealismo di Fellini, il surrealismo di Cocteau, e poi la Nouvelle Vague di Truffaut e Godard, che avevano un’estetica accattivante, nel guardaroba dei protagonisti e nei poster con colori accesi, come in quello di Fino all’ultimo respiro. Più di recente, c’è tutta la cinematografia di David Lynch, e infatti i motivi a zig zag riprendono il pavimento della Loggia Nera di Twin Peaks, ma anche di Wes Anderson, i cui colori accesi mi hanno ispirato, e di Wong Kar-wai. Sono una persona molto colpita dall’elemento visivo, ma questo non vuol dire che i miei vestiti siano teatrali: rimangono capi indossabili nella quotidianità, per andare al lavoro, estremamente pratici».
E il lockdown, è stata occasione per rimettersi in pari con i film persi, o ha deciso di rilassarsi?
«Figurarsi. Ho recuperato gli ultimi di Wes Anderson, dei fratelli Coen, di Paul Thomas Anderson, cercando di non ricadere nelle scelte più ovvie».
Il guardaroba che ha proposto per la prossima stagione fredda punta molto sui completi: crede che, finalmente, dalla prossima stagione, gli uomini (e le donne) abbandoneranno finalmente pigiami e felpe?
«Me lo auguro, e anche molti dei produttori tessili italiani ai quali mi affido condividono la mia speranza. Sono certo che quando le restrizioni sui ristoranti non ci saranno più, e non avremo più timore di viaggiare verso le capitali, torneremo a trovare il piacere nel vestirci, anche solo per uscire a fare shopping, o, come dicono gli italiani, per fare una passeggiata. Lo faremo però con un’attitudine diversa: le vestibilità saranno più morbide, così come nella collezione, dove ci sono bomber e pantaloni più rilassati, maglioni in cashmere avvolgenti. Ci vorrà tempo».
La collezione rende omaggio a due personaggi però molto cinematografici: David Bowie in L’uomo che cadde sulla terra, e Harry Dean Stanton in Paris, Texas. Cos’avevano di così interessante, per lei?
«In Paris, Texas di Wim Wenders i colori del guardaroba di Stanton e del film in generale, sono stati fonte di creatività, così come il montgomery che David Bowie sfoggia nel film. Nel caso di Bowie, poi, parliamo di un caro amico, che ho spesso vestito durante la sua carriera, e la colonna sonora dell’Uomo che cadde sulla terra, è stata composta da Richard Hartley che ha pensato anche alla musica per questa sfilata».
E proprio parlando di musica, quali sono le sue attuali ossessioni?
«All’industria musicale sono legato dall’inizio della mia carriera: ho realizzato pantaloni per Jimmy Page quando avevo appena 18 anni, poi sono venuti David Bowie, i Beatles, i Rolling Stones. Di recente sono però tornato ad ascoltare il jazz, Dave Brubeck, John Coltrane, Thelonious Monk. Grazie al nipote di mia moglie, che è pianista, mi sono avvicinato anche alla musica classica, da Bach a Chopin».
Ha ricevuto diversi titoli dalla Corona Britannica, l’ultimo solo 2 settimane fa: come ci si sente ad essere sostenuto e apprezzato in maniera costante, da più di 30 anni, dal proprio Paese?
«Nel caso del titolo della scorsa settimana, quello del Companion of Honour, a rendermi orgoglioso è che si tratta di un titolo riservato solo a 65 persone, e io sono l’unico designer. Ho fondato un brand nel 1970, un brand che ancora oggi è indipendente: fa piacere sapere che il mio Paese l’osserva, e l’apprezza. Dopo aver ricevuto tre onorificenze, dalla Regina, dal Principe Carlo, e dal principe William, cos’altro si può sperare? Forse che, tra qualche anno, tocchi al piccolo George!».