la Repubblica, 27 gennaio 2022
I dischi con le testimonianze di sei sopravvissuti alla Shoah
Nei traslochi può capitare di trovare vecchie carte dimenticate. Ma agli archivisti del Centro di documentazione ebraica è capitato di imbattersi in un patrimonio straordinario, conservato in alcuni dischi in vinile nascosti dietro uno dei tanti scaffali. Sono le testimonianze di sei ebrei romani sopravvissuti ad Auschwitz dopo la razzia del 16 ottobre del 1943. Secondo gli storici che hanno studiato le fonti, sono tra le prime testimonianze orali sull’Olocausto, raccolte nel 1955 in un’Italia ancora ignara dove Primo Levi è sconosciuto ai più ( Se questo è un uomo è ancora confinato nelle edizioni De Silva).
Dopo ottant’anni affiorano quindi le prime voci italiane dalla Shoah: voci sommesse e disadorne, tanto più toccanti quanto più nel segno della sottrazione. Il dolore è come prosciugato dal pudore, le parole hanno bisogno di tempo per trovare una forma. E la tragedia sfuma nella quotidianità dell’orrore, restituita senza accenti gravi né solennità. Sembra quasi di ritrovarvi l’eco del bellissimo racconto di Giacomo Debenedetti, il primo cronista della razzia del 16 ottobre in cui furono catturati oltre mille ebrei. «Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con spaventosa naturalezza che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore». Ragazzi ancora adolescenti, giovani padri di famiglia, uomini maturi. Per lo più artigiani, commercianti, figli del popolo. Tornavano dalla lunga notte del Novecento, ma a dieci anni dalla fine della guerra ancora non avevano condiviso il loro vissuto unico con una collettività consapevole.
Quando i tedeschi vengono a prenderli a casa, Cesare Di Segni ha 44 anni, suo figlio Lello solo 17. Cesare fa il venditore ambulante, vive a Portico d’Ottavia. Racconta delle mitragliate nella notte che precede il sabato nero, lo spavento e l’illusione. Alle cinque del mattino bussano alla porta: sono gli uomini mandati da Theodor Dannecker, stretto collaboratore di Eichmann, con l’elenco degli ebrei da portare via. Sul camion parcheggiato davanti al Teatro Marcello, Cesare ancora un po’ ci spera. «Pensavo che ci avrebbero portato nei campi per farci lavorare e che poi ci si riuniva con la famiglia la sera. Non pensavo che sarei stato allontanato da mia moglie a dai miei quattro figli. Senza più vederli, senza dirci addio, senza un bacio ai bambini. Nulla». Rientrato a Roma dopo due anni di campo di concentramento troverà la casa vuota e saccheggiata, e solo più tardi il primogenito Lello. Insieme raccontano di essere rimasti abbracciati a lungo, così a lungo che sembra di vederlo quell’abbraccio. E poi c’è Lazzaro Anticoli, che di anni ne ha trentatré. «Ci sono rimasto un po’ male quella mattina, all’alba. I soldati con il mitra stavano davanti alla porta e mia moglie era tutta scalmanata». La moglie forse aveva già capito tutto. Il nome di Auschwitz non riesce a pronunciarlo bene. Racconta che a un certo punto viene separato dalla moglie e dai bambini, che lo portano «a fare il numero» ossia il tatuaggio inciso nella carne, che gli contano i denti d’oro in bocca, e che continuava a chiedersi ma che ci faranno?, finché un ebreo polacco gli consiglia di non pensarci più ai suoi famigliari, altrimenti sarebbe morto prima del tempo. Lui ha resistito, ma di moglie e figli gli è rimasto solo il ricordo.
Anche Angelo Sermoneta è tornato a casa da solo. Ha 27 anni quando i tedeschi entrano nella sua casa di Piazza Vittorio. Dice di aver visto undici lager, di aver fatto la marcia della morte, di essere andato incontro agli americani strisciando sulle braccia perché aveva una gamba assiderata. È una cronaca dell’inferno, ma la voce resta ferma, senza alcun autocompatimento. Non ha ancora trent’anni neppure Mario Piperno, che del lager ricorda le botte, le percosse delle SS sulla testa. «Le hanno fatto male?» chiede ingenuo l’intervistatore, «abbastanza» risponde lui asciutto. Il più giovane di tutti è Luciano Camerino, appena diciassettenne all’epoca della retata. Anche il suo resoconto è un viaggio nella notte. Racconta di essersi ribellato ai soldati che gli intimavano di spogliare i corpi dei suoi compagni morti nelle camere a gas. È lui, il testimone ragazzino, a riuscire a dire quello che poi sarebbe stato ripetuto più tardi, quando la testimonianza si fa più strutturata: «Non è odio quello che provo, ma non riesco a dimenticare». S’è voluto costruire subito una famiglia, e ha chiamato le figlie con il nome di chi non c’è più. Ma dimenticare non si può. (Morirà giovane mentre a Firenze, nei giorni dell’alluvione, tenta di mettere in salvo i rotoli della Torah).
L’autrice del ritrovamento è Laura Brazzo, responsabile dell’archivio della Fondazione Cdec a Milano. «Per decenni quei dischi sono rimasti in un angolo finché non li abbiamo scoperti in occasione del trasloco, ormai imminente, presso il Memoriale della Shoah. L’etichetta era inequivocabile: 16 ottobre 1943. Una volta digitalizzati, abbiamo scoperto un contenuto sorprendente: voci raccolte a caldo nel 1955, tra le primissime testimonianze orali in Italia». Il merito della registrazione è di Guido Di Veroli, un giovane engagé del circolo ebraico romano – poi divenuto un leader della Comunità – che nel decennale della Liberazione organizza le interviste a sei sopravvissuti alla razzia a Roma. «Le testimonianze colpiscono per la loro freschezza, si direbbe persino per l’inconsapevolezza del ruolo», dice Brazzo. «All’epoca non c’era ancora un’elaborazione pubblica della memoria a cui poter attingere. I testimoni vivevano il ricordo di quella tragedia solo nel proprio privato. Anche le domande mostrano grande ingenuità. Si chiede dei sentimenti attraverso gli accadimenti specifici, diversamente da come accadrà nelle interviste investigative realizzate in un periodo successivo». Della razzia del Ghetto non abbiamo fotografie. Racconta Anna Foa, autrice di un bel libro sul lungo inverno del 1943, che i nazisti avevano l’abitudine di riprendere tutto. Abbiamo foto anche della distruzione del Ghetto di Varsavia, ma sulla deportazione a Roma non ci sono immagini. Dopo svariati decenni arrivano le prime voci di chi c’era e subiva, e ora sembra di vederlo, il Portico d’Ottavia, quando l’odio scende su quegli uomini e su quelle donne ignari. «Che volete che vi dica?», dice a un certo punto Cesare Di Segni, il venditore ambulante tornato a casa senza moglie e senza figli. Le cose sono andate così. Ed è forse in quella rassegnazione spoglia lo strazio più grande.