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 2022  gennaio 23 Domenica calendario

Biografia di Sandro Ferri raccontata da lui stesso

È nato a New York, cresciuto a Parigi, ha frequentato le lezioni di Foucault e Althusser, ma si dichiara antintellettuale. È il più internazionale dei nostri editori, con redazioni a Londra e a Manhattan, ma gli piace essere annoverato tra i piccoli. Chi sospetta in lui un malcelato snobismo sarà felicemente smentito dal bel libro autobiografico in cui Sandro Ferri si mette per la prima volta a nudo. Una storia di successi raccontata con un accento sommesso e malinconico, la stesso che ne fa un personaggio diverso nella ristretta cerchia dei publisher più influenti. L’editore presuntuoso è il racconto di una magnifica avventura, quella della casa editrice e/o, nata oltre quarant’anni fa dall’iniziativa solitaria di due ragazzi – Sandro e Sandra Ozzola, sua moglie – e oggi tra le prime in Italia per fatturati. Ed è anche il toccante diario di una complessità esistenziale, che è il filo nascosto del libro, fino alla confessione appena accennata nell’ultima pagina.
Il libro si presta a una doppia lettura.
Celebra la figura dell’"editore presuntuoso”, l’editore titanico che fa a meno del management finanziario, e nel contempo ne recita il funerale.
«Sì, il sottofondo malinconico nasce anche da lì. Oggi c’è molto meno spazio per un’editoria di ricerca, non fondata esclusivamente sui profitti. Degli editori nati con noi quasi nessuno è sopravvissuto. E quei pochi si barcamenano con fatica».
Sulla soglia dei settant’anni, sembra quasi annunciare la sua uscita di scena dalla casa editrice.
«In realtà vorrei morire lavorando. A casa mi prendono in giro per questo. Ma ora trovo giusto mandare avanti nostra figlia Eva, più capace di noi di intercettare la sensibilità contemporanea».
Alle origini dell’avventura c’è stata la scoperta dell’Europa dell’Est, che da noi si conosceva poco.
«Era considerata un relitto della storia, un luogo quasi ridicolo. Ricordo quando il professor Jerzy Pomianowski, amico colto e sensibile, partecipò a Quelli della notte, il programma di Renzo Arbore. Marcava il suo accento polacco e l’intonazione iperbolica diventando in questo modo una macchietta.
Per gli italiani l’Est era una cosa buffa».
Più ancora dei loro libri vi interessavano le storie personali degli autori travolti dalla storia.
«Fu la ragione per cui li scegliemmo. Sandra ed io venivamo dalla militanza nell’estrema sinistra, pensando di essere nell’onda del Novecento. Poi comprendemmo l’esito nefasto di certe ideologie. E ci fu di grande aiuto l’ironia praghese di scrittori come Hrabal e Kundera: per non farsi schiacciare dalla storia grande e terribile bisogna imparare a sbeffeggiarla».
Tra gli incontri più importanti ci fu quello con Kazimierz Brandys, “lo zio Casimiro”.
«Un ebreo polacco che ha attraversato le tempeste del secolo sempre con il sorriso ironico sulle labbra. In fondo è da questi incontri che ho maturato una concezione tragica della storia, una visione che però non impedisce di fare ogni giorno qualcosa di buono. La casa editrice è il risultato di questa convinzione».
Avete avuto un ruolo culturale importante, ma nel libro c’è una rivendicazione costante e orgogliosa di siderale distanza dal mondo intellettuale. Non è un paradosso?
«Forse può apparire così. Ma l’anti-intellettualismo ha una radice precisa.
Nasce dall’esperienza della mia generazione che ha vissuto il fallimento non solo del marxismo ma di tutti i grandi sistemi di pensiero. Io sono cresciuto a Parigi, nel Quartiere Latino. E proprio nella stagione engagée saltabeccavo tra le lezioni di Foucault e Althusser o leggevo Deleuze, Sartre, Lacan.
Nessuno di questi guru della sinistra intellettuale ha spiegato davvero il mondo».
Ma la sua estraneità al mondo colto è troppo ribadita per non avere una ragione più personale.
«Da ragazzo ho seguito tra le tante lezioni, anche un corso di Charles Bettelheim per tentare di capire il fallimento degli operai in Urss, ma poi non concludevo niente. Più di tanto non ero capace. Penso di essere un uomo più d’azione che di pensiero. Mi piacciono i libri e le idee, ma il mio lavoro è di far funzionare un’impresa economica che faccia circolare libri e idee».
In questo agisce una sorta di sfida famigliare. Suo padre è stato un imprenditore di successo.
«Era stato un comandante partigiano, molto amato dai suoi uomini. Dopo la guerra andò a New York dove fece mille mestieri. Conobbe per caso anche mia madre, figlia di immigrati abruzzesi che vivevano nel Bronx. Trasferiti a Parigi, fece una gran fortuna costruendo palazzi. È morto nel 1968, avevo solo 16 anni».
Lei è stato un ragazzo ricco. È anche grazie al patrimonio famigliare che ha potuto
fondare e/o. Poi il naufragio economico per colpe non sue. Quanto l’ha segnata?
«Molto, soprattutto per il dolore di mia madre.
Aveva raggiunto il benessere, e conduceva un’esistenza altoborghese tra Parigi e Roma.
Vederla senza più una casa, con niente in mano, mi ha fatto male. In seguito avrei compreso che quel tracollo finanziario era arrivato nel mio lavoro di editore come una scossa benefica. Non potevo più fare errori».
Si è dovuto mettere a guardare i bilanci. E da figlio con la testa tra le nuvole è diventato l’erede che è riuscito a pareggiare i conti con il padre.
«Come tanti della mia generazione, avevo rifiutato i miei genitori. Senza capire niente delle loro vite straordinarie: la guerra, la Resistenza, la ricostruzione, il boom economico. Si erano fatti un mazzo pazzesco poi siamo arrivati noi sessantottini che gli abbiamo detto: fate schifo. A un certo punto ho capito di aver sbagliato. E ho voluto recuperare il valore dell’impresa incarnato da mio padre».
Sicuramente ha superato la vaghezza delle origini, quella che la fece fallire come libraio che pure vendeva “Cahiers du cinéma” o “Les Temps Modernes”. Però rimane una sorta di estraneità malinconica verso il mondo della cultura.
«Vero. Non dovrei dirlo da editore, ma il mio mondo non è quello intellettuale. Ancora oggi avverto il fascino delle idee, amo i miei autori e se vedo un film di Eisenstein ne percepisco la grandezza. Ma i miei amici veri sono estranei agli ambienti colti. Io mi emoziono di più con persone di altra estrazione sociale».
Che cosa non le piace del mondo culturale?
«Il conformismo. La mancanza di coraggio. La prevedibilità dei canoni. Gridano contro Valérie Perrin, nostra autrice del bestseller Cambiare l’acqua ai fiori, perché dice di essersi annoiata con Proust. Giudizio discutibile, ma legittimo. E poi che coraggio c’è nel dire che Proust è un grande? Mi pare ovvio».
Lei si sente sotto attacco per aver dato spazio a libri più popolari. E rimarca marginalità rispetto al sistema culturale che conta. Ma è sicuro che sia così?
«Sì, quest’alterità è nelle cose. Sandra ed io non frequentiamo…».
Ma secondo lei esistono ancora i salotti colti che decidono le sorti di un libro?
«Non esiste più una società letteraria, aggiungo purtroppo. Però esistono piccoli centri di potere. Lo Strega, ad esempio, mette in moto una carovana che qualche effetto lo esercita. Io in questi anni gliene ho detto di tutti i colori, ma tanti miei colleghi scelgono la strada più redditizia dell’ossequio».
Da Jean-Claude Izzo ad Alice Sebold, da Massimo Carlotto a Muriel Burbery. Nella galleria degli autori, l’unico ritratto dedicato a un traduttore è quello di Anita Raja. È il racconto di una bellissima giornata in campagna trascorsa con lei, con il marito Mimmo Starnone, e con Christa Wolf, l’autrice di “Cassandra”. Troppo malizioso pensare che sia stato il suo modo nascosto per rendere omaggio ai veri creatori di Elena Ferrante?
«Ma no. Con Anita e Mimmo siamo amici da sempre. E alla traduzione di Anita deve molto il successo di Cassandra, il nostro primo bestseller. Poi a Elena ho dedicato un altro capitolo».
A proposito, dal suo racconto su Ferrante viene fuori il rimpianto dell’autrice per non aver potuto partecipare agli incontri pubblici di New York e Francoforte. Per anni ci ha severamente bacchettato con la sua filosofia dell’assenza….
«Massì, è una contraddizione lecita. Che Elena teorizzi l’assenza e poi abbia il desiderio di assistere al suo successo è assolutamente umano»
Nell’ultima pagina del libro, quando racconta la sua esperienza da libraio, lei scrive: “Pensavo, speravo che la libreria mi avrebbe guarito dalla ferita di non sapere stare con gli altri”. Sono passati quarant’anni. Oggi è guarito?
«No, purtroppo no. Non so stare in mezzo agli altri. Non ho mai imparato a farlo».