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 2022  gennaio 22 Sabato calendario

Intervista ad Antonio Damasio - su "Sentire e conoscere. Storia delle menti coscienti" (Adelphi)

Cos’è? Da dove nasce? A cosa serve? La coscienza è al centro di un interesse multidisciplinare: ne discutono filosofi, psicologi, biologi, sociologi. In questo nuovo libro il neuroscienziato, che dirige il Brain and Creativity Institute alla University of Southern California, ne ripercorre l’evoluzione, dai batteri all’intelligenza artificiale, e ci accompagna in un viaggio, tanto complesso quanto affascinante, che ci aiuta a comprendere come è emersa e come si è sviluppata.

Perché quattro miliardi di anni fa, in fondo, «la vita si mise in viaggio procedendo senza parole o pensieri, senza sentire o ragionare, senza mente o coscienza». Poi è stata proprio una mente dotata di coscienza a determinare il successo degli ultimi arrivati nella saga della vita: noi esseri umani, esseri capaci di sentire e conoscere.

Combinando neuroscienze, biologia e psicologia, e privilegiando la dimensione filosofica e umanistica della sua ricerca, Antonio Damasio spiega perché senza coscienza nulla può essere conosciuto e perché sia stata così determinante per lo sviluppo delle culture umane.

Lo fa in 48 brevissimi capitoli. Come lui stesso racconta, ha praticato infatti l’arte dell’haiku: ha eliminato l’inessenziale per dare spazio solo alle idee che gli stanno più a cuore e offrirci un libro snello e di agile lettura, una sorta di distillato dei temi a cui dedica la sua brillante attività di ricerca e a cui ha dedicato i suoi libri precedenti, in Italia tutti pubblicati da Adelphi: da L’errore di Cartesio (1995) fino a Lo strano ordine delle cose (2018).

Riprendendo e rielaborando alcune tesi già sviluppate, in Sentire e conoscere sottolinea con grande chiarezza perché i sentimenti sono i più straordinari promotori delle nostre azioni adattative e creative e sono stati e continuano a essere l’alba della coscienza. Non c’è coscienza, infatti, senza i sentimenti. E così come il sentire (feeling) fa parte della via che conduce alla coscienza, la nostra intelligenza richiede il sentire e la coscienza. Ecco perché è diversa da quella di piante e batteri, ma anche da quella artificiale.

L’INTERVISTA

Sisifo, senza coscienza, se la passerebbe bene: infatti «è una figura tragica solo perché sa quale abominevole situazione sia la sua». Il più furbo dei mortali nella mitologia greca, colpevole di numerosi misfatti, è condannato infatti a una fatica eterna. Ma se fosse senza coscienza non ne avrebbe consapevolezza. E quella fatica gli sarebbe estranea.

È la coscienza, infatti, secondo il neuroscienziato Antonio Damasio, che rende possibili le esperienze mentali, dal piacere al dolore, e tutto quello che noi percepiamo e memorizziamo quando, nel processo di osservare, pensare e ragionare, descriviamo il mondo: intorno e dentro di noi.

Senza coscienza insomma, come scrive nel nuovo libro Sentire e conoscere, «nulla può essere conosciuto».

Professore, in questo libro guarda alla coscienza da una prospettiva evolutiva, spiega che il suo sviluppo è avvenuto quando gli organismi viventi hanno iniziato a provare sentimenti. E in un gioco di parole scrive: noi proviamo sentimenti perché la mente è cosciente, e siamo coscienti perché esistono i sentimenti. Ma perché non c’è coscienza senza i sentimenti? Perché il sentire fa parte della via che conduce alla coscienza?

«I sentimenti sono spontaneamente coscienti. In altre parole, quando sentiamo fame o sete sappiamo automaticamente e consapevolmente che qualcosa è cambiato nel nostro organismo. Tutti i sentimenti sono coscienti: quelli spiacevoli indicano situazioni che intralciano e mettono in pericolo la vita, quelli piacevoli invece indicano situazioni che, per contro, l’aiutano a prosperare. Come suggerisco nel nuovo libro, i sentimenti sono una parte importante della storia della coscienza: hanno segnato l’inizio della coscienza nella storia dell’evoluzione, sono stati i primi processi a renderla possibile».

Perché contribuiscono alla gestione della vita?

«Il tipo di sentimenti noti come “omeostatici”, come la fame, la sete, il dolore, il benessere, esprimono lo stato del corpo impegnato a regolare le funzioni necessarie alla vita. E in quanto tali svolgono un ruolo fondamentale nella gestione stessa dell’organismo. Operano come sentinelle pronte a dare l’allarme. Ci dicono se l’organismo sta o non sta funzionando in armonia con le esigenze omeostatiche, cioè in modo da promuovere o meno la vita e la sopravvivenza. E informandoci su pericoli e opportunità, danno lo stimolo per agire di conseguenza».

Cioè?

«Per esempio, la fame e la sete indicano in modo assolutamente trasparente una caduta nelle risorse energetiche o un declino della quantità ideale di molecole d’acqua. Considerando che nessuno dei due fenomeni è compatibile con la continuazione della vita, men che meno di una vita sana, i sentimenti fortunatamente non si limitano a fornire informazioni preziose, ma ci costringono ad agire in base a esse. Motivano dunque le nostre azioni».

Per questo ne parla come di barometri dello stato interno degli organismi. I sentimenti però sono anche la forza motrice dello sviluppo delle culture umane?

«L’esperienza umana del dolore e della sofferenza è stata responsabile di una creatività straordinaria a cui si deve l’invenzione di ogni sorta di mezzo capace di contrastare i sentimenti negativi. Mentre il benessere e il piacere coscienti hanno motivato gli infiniti modi con cui gli esseri umani hanno garantito e sviluppato condizioni favorevoli alla propria vita, a livello individuale e sociale».

Professore, attraverso la letteratura abbiamo familiarizzato con l’idea di una ineluttabile dicotomia tra ragione e sentimento, lei invece spiega che, sebbene esista una profonda distinzione, non c’è nessuna contrapposizione giacché noi siamo al tempo stesso, a seconda delle circostanze, creature pensanti dotate di sentimenti e creature senzienti dotate di pensiero…

«In effetti c’è una tradizionale separazione tra sentimento e ragione, ma questa separazione tende a scomparire nelle prestazioni umane quotidiane. Spesso arriviamo a prendere decisioni con mezzi puramente razionali, ma altrettanto spesso influenziamo il processo decisionale con sentimenti che ci spingono in una direzione o nell’altra. E a seconda della questione su cui dobbiamo prendere una decisione, la ragione è meglio lasciarla in pace o supportarla con emozioni e sentimenti. In altre parole, attraversiamo la nostra vita provando sentimenti, ragionando o facendo entrambe le cose. E la natura umana trae beneficio dall’uso, in combinazione o no, di sentimenti e ragione».

Professore, nel libro dedica un capitolo all’intelligenza artificiale. Perché ritiene sia giunto il momento di aprire un nuovo capitolo nella storia della robotica, quale espressione ultima dell’IA?

«Nell’attuale generazione di macchine intelligenti non c’è spazio per i sentimenti. I robot non hanno, attualmente, stati soggettivi. Non sanno perché o come stanno facendo quello che fanno. Una nuova generazione di macchine intelligenti potrebbe prendere in prestito alcune delle caratteristiche dell’intelligenza umana che potrebbe conferire alle macchine la possibilità di sapere, almeno in parte, cosa fanno o gli effetti di ciò che fanno. In futuro sicuramente vedremo connessioni tra intelligenza artificiale e intelligenza umana».

Ma per sviluppare macchine capaci di sentire, cioè di provare quei sentimenti che definisce omeostatici, cosa dovremmo fare?

«Fornire ai robot un “corpo” che, per conservarsi, richieda regolazioni e aggiustamenti. E le nuove tecnologie della robotica soft consentono questo sviluppo sostituendo strutture rigide con altre, flessibili e regolabili. Quello che la macchina “sente” nel suo corpo avrà voce in capitolo nella risposta alle condizioni esterne. Quella “voce” dovrebbe migliorare la qualità e l’efficienza della risposta, e perciò rendere il comportamento del robot più intelligente».

Insomma, non c’è intelligenza senza corpo. Ma le macchine “capaci di sentire” diventano allora macchine “coscienti”?

«Be’, non così in fretta».

Ancora a proposito di intelligenza, se nella prospettiva generale di tutti gli organismi viventi, l’intelligenza denota l’abilità di risolvere in modo efficace i problemi posti dalla lotta per la vita, allora si pone il paradosso dei virus: sono intelligenti? E che dire dell’intelligenza di piante e batteri?

«L’intelligenza di quei mostruosi aggregati non viventi noti come virus è una fastidiosa questione. Non sono vivi, ma una volta penetrati in un organismo adatto, “agiscono” in modo molto intelligente dal punto di vista della loro stessa continuità. In breve, non sono vivi ma possono diventare parassiti di esseri viventi e condurre una “pseudo” vita mentre, nella maggior parte dei casi, distruggono quella che consente loro sia di proseguire l’esistenza ambigua che li contraddistingue, sia di promuovere la sintesi e la disseminazione degli acidi nucleici. A tal proposito, nonostante il loro status di non viventi, non possiamo negare ai virus una frazione di quella varietà di intelligenza non esplicita che anima tutti gli organismi a cominciare dai batteri».

Quindi i batteri sono intelligenti?

«Per quanto riguarda batteri e piante, la loro intelligenza è molto diversa dall’intelligenza umana. Io uso la parola “covert”, che in italiano potrebbe essere tradotta con “coperta”, per indicare il fatto che la loro intelligenza non è esplicita, è recondita, non è nota agli stessi organismi che agiscono in modo intelligente. L’intelligenza degli esseri umani invece è esplicita e consapevole. Richiede una mente, sentimenti e coscienza. Richiede percezione, memoria e ragionamento. Però, in effetti, per quanto diversi siano i modi di operare, i due tipi di intelligenza eseguono lo stesso lavoro: risolvere i problemi posti dalla lotta per la vita. Le intelligenze “coperte” li risolvono in modo semplice ed economico. Le intelligenze esplicite sono complicate: richiedono appunto il sentire (feeling) e la coscienza. Noi esseri umani, d’altro canto, ci avvaliamo di entrambe le varietà di intelligenza, esplicita e non. A seconda del problema da affrontare, usiamo l’una, l’altra o entrambe».