la Repubblica, 22 gennaio 2022
In morte di Francesco Paolo Fulci
NEW YORK
Raccontava Francesco Paolo Fulci che quando Madeleine Albright era diventata ambasciatrice americana all’Onu, lo aveva incontrato per un colloquio sulle priorità da affrontare insieme. Siccome il tono dell’inviata di Clinton era stato un po’ troppo brusco, lui le aveva affabilmente risposto così: «Gentile signora, volevo ricordarle che io sono il rappresentante dello Stato italiano, non un sergente dei Marines». Che il colloquio fosse andato davvero così è ormai irrilevante, però è un fatto che una volta diventata segretaria di Stato, Madeleine lasciò a Paolo una foto con dedica che recitava così: «La tua diplomazia è leggenda».
Non è esagerato usare questa parola, leggenda, per descrivere la storia dell’ambasciatore morto ieri a 91 anni, dopo aver aiutato anche la Ferrero a navigare un complesso periodo di trasformazione. Perché Fulci era insieme un uomo di altri tempi, proiettato verso un futuro che aveva intuito prima di molti altri, tanto per i contenuti della sua missione, quanto per il modo in cui la comunicava. Un infaticabile servitore dello Stato, nell’accezione più positiva di questo termine. Nato a Messina, aveva iniziato la carriera nella segreteria di Amintore Fanfani. Per dare un’idea del suo approccio al lavoro, raccontavano che quando aveva servito in Francia si travestiva da immigrato italiano, per andare nei consolati a verificare come venivano trattati i nostri connazionali allo sportello.
All’Onu era diventato un protagonista assoluto con la battaglia sulla riforma del Consiglio di Sicurezza, dove Germania e Giappone pretendevano un posto come membri permanenti, che avrebbe emarginato l’Italia. Fulci raccontava di aver approfittato di un momento di stanchezza dell’allora ministro degli Esteri Andreatta, per strappargli l’autorizzazione a montare la risposta. E come sempre era stato irrefrenabile, anche se pochi credevano alla possibilità di sbarrare la strada a Berlino e Tokyo. La strategia diplomatica si basava sul fatto che alla vigilia del Ventunesimo secolo una riforma del Consiglio elitaria sarebbe stata antistorica, avrebbe danneggiato il multilateralismo e frenato l’integrazione europea, chiudendo la porta anche al sogno di un seggio della Ue.
Perciò aveva radunato tutti i paesi contrari al cosiddetto quick fix, dal Pakistan al Messico, in quel “Coffe Club” diventato ora “Uniting for Consensus”, che ancora si batte per una riforma democratica basata sull’aggiunta di seggi non permanenti, anche se a rotazione più frequente, per dare spazio ai continenti sottorappresentati come Africa e America latina.
Il premier Prodi, durante la visita a Roma dell’ambasciatore Richardson, si rivolse così a Fulci: «Ma lei è ossessionato da questa storia?». La risposta fu esplicita e secca: «Sì». E si vedeva da come poi gestiva la campagna nei dettagli. Al punto che in vista di una cena offerta agli stati insulari, che saranno piccoli ma all’Onu portano tanti voti, aveva ordinato ad un diplomatico diventato poi una stella della Farnesina di trovare le immagini del film Il postino di Troisi, per proiettarle in sala allo scopo di dimostrare che l’Italia era come loro. La squadra che aveva costruito, i “Fulci Boys”, era piena di futuri ambasciatori e persino ministri: Terzi, Sequi, Cardi, Cornado, Menzione, Casardi, una lista infinita. Altra testimonianza dell’eredità lasciata all’Italia.
All’Onu fondò il Coffee Club un gruppo di Paesi nato per opporsi all’aumento dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza che avrebbe emarginato l’Italia
Siciliano L’ambasciatore Francesco Paolo Fulci era nato a Messina nel 1931