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 2022  gennaio 22 Sabato calendario

Reportage tra i tossici di Kabul

Sono lerci, smagriti, coperti di piattole e pidocchi. Alcuni hanno il viso gonfio, altri al contrario le guance incavate e coperte di una barba polverosa. Straziati dal freddo e dalla fame, gli oltre duemila tossicodipendenti rinchiusi nel centro di recupero di Ibn Sina, in periferia di Kabul, vorrebbero soltanto scappare. «Ma siamo sorvegliati da trenta talebani armati che non esiterebbero ad aprire il fuoco al primo tentativo di fuga», dice Khairul Bashar, 24 anni, catturato mentre fumava “crystal met”, la metanfetamina in cristalli prodotta in Iran, che qui non costa nulla. «Sono disoccupato dallo scorso agosto, dalla caduta di Kabul. Con la droga sopportavo anche la fame», aggiunge il ragazzo. La tossicodipendenza è una delle piaghe che funestano l’Afghanistan e i talebani hanno deciso di sanarla. A modo loro, però, con retate pianificate nelle principali città del Paese per riempire fino all’inverosimile i malconci san Patrignano locali, dove manca tutto: vestiti, cibo, carbone per le stufe, metadone e altri farmaci. «Sono rinchiuso in questo gulag da più di due mesi, sempre con gli stessi abiti, inadeguati al gelo dell’inverno. Ci danno una tazza di tè e un pugno di riso al giorno e siamo costretti a dormire in due o tre per branda. Ogni giorno, almeno cinque di noi muoiono di stenti», dice ancora Bashar, scoprendo l’addome per mostrarci i morsi degli insetti.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, in Afghanistan il problema della tossicodipendenza riguarda il 10 per cento della popolazione, ossia 4 milioni di persone che consumano soprattutto metanfetamine, eroina e oppio. Se sono così tante è per via di una guerra durata quarant’anni che ha creato disperazione, miseria e disoccupazione, ma anche a causa della grande disponibilità di stupefacenti, in buona parte prodotti in loco. Ora, la grave crisi economica che negli ultimi mesi colpisce il Paese sta peggiorando questi dati agghiaccianti, con un tasso di morti per overdose mai registrato prima d’ora. «Qui riceviamo uomini che hanno tra i 18 e i 65 anni, l’80 per cento dei quali assumeva droghe chimiche», dice Ahmad Zahir Sultani, chirurgo ortopedico e direttore di Ibn Sina, il quale conferma che il suo centro ospita molti più “pazienti” dei mille previsti. Sultani illustra poi la giornata tipo all’interno del lazzaretto: «Sveglia alle 5 per la preghiera, poi alle 6 la prima colazione e la distribuzione dei farmaci. Alle 12 pranzo e alle 18 cena con altri farmaci. Alle 22 si spengono le luci». Il direttore ammette però di non avere i mezzi necessari per disintossicare i drogati: «Per esempio, per gli eroinomani e per i dipendenti dall’oppio non abbiamo abbastanza metadone e per quelli che prendevano metanfetamine non abbiamo nulla. Cerchiamo perciò di curare altrimenti i sintomi dell’astinenza: antiemetici contro vomito, calmanti per dolori muscolari e antidepressivi per chi ha crisi di ansia. Il problema è che qui scarseggiano anche questi farmaci».
Per questo motivo, sebbene il protocollo sanitario preveda una permanenza di 45 giorni in questa ex base militare, a una decina di chilometri dal centro della capitale, la maggior parte dei disperati che incontriamo è rinchiusa qui dentro da molto più a lungo. Ali Wardaak, 30 anni, operaio disoccupato, si lamenta perché le scarpe che gli hanno fornito quand’è arrivato sono delle vecchie ciabatte ormai sfasciate. «Non ho neanche un paio di calze, e rischio di morire di freddo. Sto male, sono affamato e ho la febbre da settimane», dice. Accanto al suo letto è disteso il ventottenne Abdul Rakman, ex poliziotto, eroinomane che ormai non peserà più di trenta chili e che emana l’odore nauseante tipico della malattia. Ha occhi acquosi e inespressivi, e pronuncia parole difficilmente comprensibili, con cui sembra chiedere scusa alla sua famiglia per essere diventato schiavo dell’eroina.
Da quando il nuovo regime ha deciso di estirpare il flagello della droga non è più il ministero della Salute a gestire i problemi legati alla tossicomania, bensì quello dell’Interno. Come spiega il dottor Nazir Sharifi, uno dei promotori dell’iniziativa, al momento si tratta di un progetto sperimentale. «Se funziona, riceveremo altri fondi con cui fornire ai centri farmaci a sufficienza». Dal suo ufficio all’ultimo piano di una palazzina che domina Kabul, Sharifi ci dice che esistono due tipi di tossici: «Quelli che accettano di farsi curare su base volontaria e che si recano da soli nei centri di recupero; e quelli che invece vanno catturati e trattati contro la loro volontà. Purtroppo questi ultimi sono la grande maggioranza». A Kabul ma anche a Herat, Mazar-e-Sharif e Kandahar, a prelevarli come cani randagi per la strada o sotto i ponti sono uomini armati a bordo di pick-up che li perseguitano nei loro più segreti nascondigli. Le retate sono programmate ogni mese e mezzo, anche se non è ancora terminata la terapia per i tossici dell’infornata precedente, il che spiega il sovraffollamento dei centri.
Era metà novembre quando gli studenti del Corano hanno cominciato «a ripulire le città dai drogati», sostenendo che trattare le dipendenze avrebbe permesso «di eliminare il traffico di droga in Afghanistan». In pochi giorni, furono prelevate dalla strada tremila persone. Allora, Saeed Khosti, portavoce del ministero dell’Interno, sentenziò: «Piano piano li scoveremo tutti. E in giro non rimarrà più un solo tossicodipendente». Il paradosso è che lo stesso mese la raccolta di cannabis raggiungeva livelli da primato, rendendo l’Afghanistan, oltre che di oppio, il primo produttore al mondo di hashish e marijuana. Tutta merce che costituisce la prima fonte di reddito del regime talebano, e che ovviamente i mullah vorrebbero destinare soltanto all’esportazione.
Rientrati verso il grande bazar, basta affacciarci dai ponti che attraversano il Kabul per scorgere i prossimi tossici che saranno agguantati e rinchiusi al centro di Ibn Sina. Si nascondono appena sulle rive del fiume che in questa stagione è poco più che un rigagnolo di fogna. Ma è sotto un ponte un po’ più lontano dal centro che scopriamo l’orrore: una mezza dozzina di uomini che fuma e inala “crystal met” accanto a otto cadaveri di sventurati probabilmente morti di overdose, o forse uccisi dal gelo mentre erano sballati.