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 2022  gennaio 22 Sabato calendario

Orsi&Tori

È più importante per il futuro dell’Italia la scelta per il Quirinale e di conseguenza per il governo oppure lo è la scelta per le Generali e di conseguenza per Mediobanca?

È ovviamente una domanda pleonastica, dati i due differenti livelli; ma, paradossalmente, le due vicende hanno molto in comune, anche se su piani diversi, evidenziando difetti cronici del paese.
Partendo dalla domanda meno importante, si vanno comunque a toccare le istituzioni, siano esse la Consob e l’Ivass o la Banca d’Italia, o l’Eba (European bank autority) o addirittura la Bce. In gioco sono valori di democrazia finanziaria e di potere, sia pure circoscritto all’ambito finanziario-bancario.
Il principio più importante della democrazia societaria passa attraverso il voto che i possessori di azioni possono esprimere. E come nella democrazia politica, vince chi ha
più voti. Questo è indubbio. Ma conta anche ciò su cui il voto azionario viene espresso: allo stesso modo come in politica il voto più importante è quello per la elezione del parlamento, che deve legittimare il governo, in economia e finanza il voto più importante è quello per la nomina del consiglio d’amministrazione, che è appunto l’equivalente del parlamento in politica, visto che il consiglio d’amministrazione poi può scegliere chi operativamente o esecutivamente (per usare il termine della politica) governa l’azienda. E come in politica, i parlamentari vengono eletti sulla base del programma che esprimono, anche in economia e finanza i consiglieri e il consiglio nel suo complesso vengono eletti sulla base della qualità delle persone e del programma che essi esprimono.

La ragione del contendere in Generali è fra importanti azionisti come sono diventati Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, e di fatto Mediobanca, ancora oggi, da decenni, singolo maggior azionista della principale entità finanziaria italiana qual è la compagnia del Leone di Venezia. Tre anni fa, Mediobanca ha fatto sì che lo statuto di Generali contemplasse la possibilità che fosse il consiglio in carica (il parlamento) a indicare una lista di candidati per le elezioni che si tengono ogni tre anni. Di fatto, Caltagirone e Del Vecchio hanno contestato e continuano a contestare questa scelta e si sono messi a comprare azioni arrivando quasi a eguagliare intorno al 17% i voti di Mediobanca, che ad azioni proprie ha aggiunto azioni in prestito.
Per protesta, sia Caltagirone, che era vicepresidente vicario, che il rappresentante di Del Vecchio, Romolo Bardin, si sono dimessi contro la decisione della maggioranza dei 13 consiglieri di Generali di replicare la procedura di designazione dei consiglieri (che in maggioranza devono avere la caratteristica di indipendenti) da sottoporre al voto di aprile e soprattutto di includere fra questi l’amministratore delegato, Philippe Donnet verso cui il costruttore romano, battezzato da L’Espresso il maggior palazzinaro della capitale, ha mosso pesantissime critiche, come del resto ad altri consiglieri, al presidente Gabriele Galateri e a Lorenzo Pellicioli. In più, Caltagirone ha attaccato la Consob, al quale si era rivolto perché si pronunciasse sul tema che un consiglio in carica non possa avere il diritto di riproporre i consiglieri per il nuovo triennio. Dopo un dibattito interno in cui il presidente Paolo Savona si è trovato per giorni bloccato da una sorta di opposizione pro-Caltagirone, alla fine nella giornata di giovedì 20, dopo un Twitter dello stesso Savona dove diceva di essere solo a difendere l’innovazione («l’eterna lotta tra la conservazione e l’innovazione»), i commissari hanno trovato un accordo per riconfermare la legittimità della procedura di formazione della lista di nuovi consiglieri dai parte dei vecchi in carica. Del resto, c’era anche un elemento molto materiale a supporto: nello statuto del colosso italo francese EssilorLuxottica, che Del Vecchio controlla e gestisce, è esattamente previsto che il consiglio in carica presenti la lista per i nuovi consiglieri da eleggere da parte dell’assemblea.

Ma il fatto più importante è un altro: il presidente Savona ritiene assolutamente legittimo che chi ha investito svariati miliardi in Generali, come Caltagirone (in primo luogo) e Del Vecchio abbia il diritto di contare, se il programma che presenteranno in assemblea insieme all’elenco dei consiglieri, fra i quali il manager che funga da amministratore delegato, otterranno la maggioranza dei voti, cioè se riusciranno a convincere della bontà del loro progetto la maggioranza degli azionisti. In Generali oltre il 35% è posseduto da investitori istituzionali e saranno proprio questi, in quanto partecipino, a determinare chi vince; e finora, una logica di investitori istituzionali, hanno sempre votato in numero sufficiente alle proposte del singolo maggior azionista Mediobanca, cioè un animale a loro istituzionalmente assai più simile che ai due gagliardi azionisti italiani.
Un impedimento non secondario per il duo Caltagirone-Del Vecchio è il fatto che i loro acquisti non possano arrivare a una quota in cui poi sia obbligatorio da parte loro lanciare l’Opa. L’investimento diventerebbe davvero enorme e sicuramente, se ci fosse un’opa, molti grandi gruppi coglierebbero l’occasione per conquistare il grande gruppo assicurativo e finanziario di Trieste.

Proprio per questo, con una sorta di similitudine con le mosse che vengono compiute per la elezione del presidente della Repubblica, da tempo, dividendosi un po’ i compiti, Del Vecchio ha operato per contare in Mediobanca, cioè per scalare Generali attraverso un peso decisivo in Mediobanca. Oggi è arrivato a poco più del 19%, essendo stato autorizzato a salire a questo livello dai due organismi europei di controllo della Ue, l’Eba e la Bce. Ha ottenuto l’autorizzazione garantendo che il suo è un investimento di tipo finanziario, non per avere il controllo della prima banca d’affari italiana. Per contare davvero in Mediobanca avrebbe però bisogno o di salire oltre il 20% o di trovare alleati. In ogni caso, se arrivasse a controllare Mediobanca inevitabilmente anche la sua finanziaria di famiglia, Delfin, verrebbe sottoposta al controllo e a tutti i vincoli dei regolamenti bancari europei: un’ipotesi che diventerebbe una sorta di camicia di forza per quella che è la finanziaria con in pancia anche Essilor-Luxottica e molte altre attività, avendo una serie di eredi, fra figli di primo, secondo e terzo letto, molto variegato. È quindi poco probabile che Del Vecchio, un uomo straordinario che è partito da Martinitt come era stato Angelo Rizzoli sr., voglia mettere il suo patrimonio sotto i rigidi controlli bancari.

Probabilmente anche per questo, le maggiori chance di ottenere un consiglio d’amministrazione di Generali da parte di Del Vecchio e Caltagirone passa attraverso la scelta di manager di altissimo livello, un programma credibile anche per gli investitori istituzionali e una progressiva demolizione della credibilità del sistema Mediobanca, con la controindicazione soprattutto per Del Vecchio, ma anche per Caltagirone che ha acquistato circa il 4% della banca d’affari, di vederne scendere il valore. L’azione di demolizione, tuttavia, è in pieno svolgimento e il più agguerrito e più attrezzato per l’operazione è Caltagirone, che controlla vari giornali in città chiave come Roma con il Messaggero e Venezia con il Gazzettino, e oltre ai media gestiti in maniera imperativa da un responsabile delle pr e dell’attività lobbistica molto bravo quanto aggressivo. Fabio Corsico è in azione da tempo, spiegando a chi fa opinione che i manager e consiglieri, da quelli di Mediobanca a quelli di Generali, da Alberto Nagel perfino a Lorenzo Pellicioli che siede nel consiglio Generali in rappresentanza dei De Agostini, sono uniti da un intreccio di interessi non commendevoli. Anche il sistema di lobby di Generali è attivo, ma si percepisce con minore aggressività.

Non vi pare questo uno scenario simile a quello a cui stiamo assistendo da settimane per l’elezione del presidente della Repubblica? La lotta per il potere ha connotati comuni in ogni settore. E come per l’elezione del Capo dello Stato, dove sono possibili fino all’ultimo grandi sorprese, anche nella guerra per le Generali fra le due parti in lotta ci potrebbe essere qualche sorpresa. Il miglior capo di grande banca commerciale che l’Italia abbia avuto negli ultimi 40 anni, il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, aveva capito giù alcuni anni fa che sarebbe stato necessario rafforzare il controllo italiano delle Generali e aveva proposto, di fatto una fusione con la prima banca italiana, che è una vera public company gestita con una governance impeccabile verso gli azionisti. Il tentativo andò male e quindi Messina ha fatto diventare Intesa Sanpaolo anche una grande compagnia di assicurazione. Andò male perché allora non c’era feeling con Mediobanca, dove Nagel ha sicuramente modernizzato il modello della banca di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi, portandola in un’area da investimento istituzionale, ma non era favorevole all’operazione pensata da Messina. Recentemente, Mediobanca ha appoggiato Intesa Sanpaolo per l’importante Opa su Ubi. Possibile che fra Messina e Nagel sia nato un feeling positivo? Tutti e due ragionano nella logica del mercato e dell’interesse primario degli investitori. Non sorprenderebbe che Messina possa scendere in campo in una partita dove l’interesse dell’Italia ad ancorare Generali e Mediobanca a un controllo nazionale è sicuramente elevato.

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In fin dei conti, la situazione è molto simile a quella dei partiti.
Qual è in teoria (e si spererebbe in pratica) l’interesse del paese nel suo complesso nella competizione in corso fra destra, centro e sinistra, per l’elezione del capo dello stato? La radiografia è impietosa: 1) 155% del debito pubblico sul pil, mentre già della prima riunione dell’Ecofin è apparso confermato il disegno della Germania, dell’Austria e dei cosiddetti paesi frugali a non voler ammorbidire il fiscal compact che imporrebbe di avere un pareggio di bilancio e che comunque vede la Germania con un debito pubblico in percentuale sul pil pari a meno della metà di quello italiano; 2) una pandemia che non continuerà a fare danni gravi all’economia solo se saranno confermate nei fatti le peraltro attendibilissime proiezioni degli algoritmi del professor Mario Rasetti e del suo allievo Alessandro Vespignani, secondo i quali a metà marzo si raggiungerà l’immunità di gregge; 3) un costo dell’energia da capogiro; 4) un rischio che oltre 700 mila aziende non possano rispettare gli impegni di rimborso dei finanziamenti ricevuti dalle banche con garanzia dello stato di fronte alla crisi creata dal covid; 5) un funzionamento della giustizia che, nonostante gli sforzi della ministra Marta Cartabia, mostra situazioni paradossali come l’annullamento da parte del Consiglio di stato della nomina a primo presidente della Corte di Cassazione di Pietro Curzio e del presidente aggiunto Margherita Cassano, dopo che poco prima era stato bocciato Michele Prestipino per la nomina a procuratore capo di Roma. E se non bastasse, in un palese braccio di ferro fra istituzioni, la rinomina sia di Curzio che della Cassano. Quando si arriva a questi punti, non è la conferma dell’autonomia delle istituzioni dello stato ma piuttosto la conferma di scontri in atto; 6) i ripetuti segnali che i capitali del Pnrr, dopo le dichiarazioni ottimistiche del presidente Mario Draghi secondo cui tutte le scadenze del 2021 erano state rispettate, sono a rischio, perché appena si arriva all’attuazione materiale emergono prepotentemente le inefficienze del sistema burocratico e legislativo italiano.

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Mi fermo per non guastare l’ottimismo che l’azione del presidente Draghi e la scelta di un governo di solidarietà nazionale avevano suscitato, ma mi sia permesso di ricordare il più grave dei problemi, se vogliamo essere oggettivi: il drammatico impoverimento di un numero enorme di famiglie, con un distacco inaccettabile fra ricchi e poveri, situazione sapientemente sfruttata dalle mafie. Ce n’è abbastanza per essere allarmati, perché a poche ore dall’inizio delle votazione dei grandi elettori, non si sia ancora scorto un segnale di ragionevolezza non solo fra i partiti per capire che, sia pure con meno morti (per fortuna), il momento che viviamo è ancora di guerra; siamo ancora in guerra con il virus e senza una visione unitaria e solidale non sarà possibile ripetere il dopoguerra iniziato nel 1945.
Il presidente Draghi ha detto una verità sacrosanta nella conferenza di fine anno, sostenendo che affinché il miracolo si ripeta occorre che ci sia una medesima maggioranza che nomina il presidente della repubblica e che sostiene il governo. Draghi parlava dopo che il Financial Times aveva sostenuto la necessità che egli rimanesse a capo del governo sino alla fine della legislatura, proprio perché l’Italia ha bisogno della sua competenza e della sua abilità nell’azione di governo. Giovedì 20 il FT, questa volta affiancato da Bloomberg, ha affermato che Draghi deve andare al Quirinale. Cosa ha determinato questo cambiamento di due media che fanno opinione in settori chiave dell’economia e della finanza, oltre che della politica? È apparso loro evidente che i partiti non hanno la capacità di tenere le posizioni di unione per quanto riguarda il governo, con palesi smanie di vari leader di tornare a governare in ministeri chiave. Per questo, almeno, il messaggio è: salvate il soldato Draghi perché, sia pure senza poteri esecutivi, possa offrire al paese e ai paesi alleati un riferimento di competenza e conoscenza dei circoli politici mondiali, come si direbbe con linguaggio diplomatico.

Ma non vi è dubbio che se si potesse usare la bacchetta magica, presidente della Repubblica dovrebbe essere rieletto (non a termine, perché questo non è costituzionale) l’encomiabile presidente Sergio Mattarella e Draghi riconfermato a Palazzo Chigi. In questo caso, non varrebbe il proverbio per cui l’ottimo è nemico del buono. Sarebbe veramente il bene del paese. Come sarebbe il bene dell’economia e della finanza italiana che la guerra per Generali e Mediobanca non finisse comunque con un assetto che depotenzia l’Italia, in un settore in cui occorre operare perché il 75% del risparmio italiano non finisca per finanziare le economie straniere. Solo trattenendo una larga parte di quel 75% di investimenti in Italia, ci potrà essere un risanamento attraverso lo sviluppo, anche per riequilibrare il debito e per surrogare quei capitali europei del Pnrr che si rischiano di perdere per l’immutata inefficienza della burocrazia, che ha il suo apice non nel confronto ma nello scontro fra gli organi di giustizia.