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 2022  gennaio 21 Venerdì calendario

Brian Cox e l’arte di sbattersene delle pubbliche relazioni

«Steven Seagal è ridicolo nella vita quanto lo è sullo schermo». L’autobiografia di Brian Cox non è neppure iniziata, siamo alla prima pagina del prologo, e già il Logan Roy di “Succession” ci dice cosa dobbiamo aspettarci: le pubbliche relazioni non sono affare di suo interesse.
Se sfogliate giornali americani, probabilmente sapete di “Putting the Rabbit in the Hat”. È il memoir in cui Brian Cox parla male di tutti: di Johnny Depp che con quelle unghie in “Edward mani di forbice” mica ha bisogno di recitare, e infatti non fa alcuno sforzo in tal senso; del “Trono di spade” in cui rifiutò una parte perché non lo pagavano abbastanza e il personaggio moriva pure presto e i soldi veri nelle serie si fanno solo con più stagioni; di Edward Norton che sul set della “Venticinquesima ora” aveva velleità da sceneggiatore e Spike Lee gli diceva sì vabbè però ora la giriamo com’è scritta sul copione; persino dei mostri sacri: «Non direi che Michael è il mio preferito, ma è Michael Caine. Un’istituzione. Ed essere un’istituzione vincerà sempre sul saper recitare».
Se vi chiedete perché non leggiate quasi mai interviste in cui gli attori (o, in generale, la gente di spettacolo – ma pure quella d’altri settori) siano così feroci, o anche solo dicano qualcosa d’interessante, qualcosa che non sia «sul set ci volevamo tutti tanto bene», le risposte sono tante.
La prima è che Brian Cox ha settantacinque anni. Non ha niente da dimostrare, niente da temere, niente da guadagnare o da perdere. Non c’è addetto stampa che gli dica «guarda che poi non ti scritturano più», non c’è manager che gli faccia presente che poi sui social gli daranno dell’ingrato: sai quanto cazzo gliene frega a lui, che quasi quarant’anni fa riempiva un teatro con “Strano interludio”, che è una pièce la cui durata è di cinque ore (e infatti in Italia la mise in scena Ronconi). Se un povero mestierante delle pubbliche relazioni provasse a suggerire a Brian Cox cosa non dire, apprenderebbe probabilmente quel che intendeva quel cantautore che diceva «descansate, niño, che continuo io».
La seconda sono, appunto, i social. Faccio pochissime interviste, ma anche quando ne facevo più spesso era pieno d’intervistati che non dicevano nulla. E qui c’è un’altra biforcazione. Alcuni intervistati non dicono niente perché il modo bislacco in cui è costruita la stampa fa sì che vengano intervistate precipuamente persone che, per il loro ruolo, non hanno strumenti dialettici. Attori: pagati per usare parole altrui. Sportivi: pagati per fare più punti o andare più forte. Politici: pagati per farsi benvolere. Capite bene che nessun appartenente a queste categorie possa divenire Socrate o Hitchens o Gore Vidal o Franca Valeri (se state per obiettare che Franca Valeri era un’attrice, vi prego d’andare a scuola di dibattito da un calciatore qualunque).
La seconda possibilità della biforcazione sono quelli che, per citare un altro cantautore, potrebbero ma non vogliono fidarsi di te. Ricordo sempre con grande affetto un cantante che dà solo interviste noiosissime e che mi dice sempre che io scrivo così bene, peccato gli abbia fatto quell’intervista orrenda.
Quell’intervista orrenda è l’unica sua intervista interessante che sia mai stata pubblicata; ma, giacché non somigliava a un comunicato stampa, egli ne restò molto insoddisfatto. Che è la prova della di essa bontà: nessuna bella intervista ha mai fatto contento l’intervistato.
Solo che, in un sistema in cui i giornali sono pienissimi d’interviste, nessuno può permettersi di dispiacere all’intervistato: e se poi il suo addetto stampa ci nega l’accesso agli altri suoi clienti?
E quindi l’intervistato dirà le cose che potrebbe dire in un comunicato stampa – che il suo nuovo disco è diverso da tutti e frutto d’un lungo lavoro, che il suo ultimo film è un’opera innovativa per la quale di certo la gente tornerà al cinema, che il suo libro è una riflessione cogente sulla contemporaneità – e noi pubblicheremo e il lettore sbadiglierà; ma il lettore non ha un addetto stampa alle cui simpatie teniamo, e quindi chi se ne frega.
Come vi dicevo un milione di righe fa, i social hanno peggiorato la situazione. Se al primo rigo di tua dichiarazione estrapolato, al primo titolo decontestualizzato, al primo screenshot dato in pasto all’analfabetismo più diffuso adesso di quando chi ora fa il commentatore social sarebbe stato impegnato a zappare i campi, se alla prima parola non neutra che dici arriva un’orda di «come ti permettiiii», ti passa la voglia.
Non è mica questione di deboli che soccombono e forti che, eroici, continuano a dire quel che vogliono: è che il diritto a dire quel che ti va è meno importante del diritto a non avere i coglioni rotti. Scegliete la vita, non potrebbe che dire oggi una riscrittura di “Trainspotting”: scegliete di dire solo che non bisogna uscire nelle ore più calde, scegliete – come massima controversia dialettica – di consigliare di bere tanta acqua.
Brian Cox ha settantacinque anni e per lui i social sono arrivati all’età alla quale arrivarono i Beatles per mio nonno, l’euro per mio padre, e chissà cosa per me: roba della quale sarebbe malsano prendere atto, roba con la quale sarebbe ridicolo cercare di mettersi in pari.
La sua autobiografia è bellissima perché Cox non è un bastian contrario per principio (ci sono anche quelli, sono l’altra faccia del non dire niente: lo spararla comunque grossa, per coprire la mancanza di idee interessanti e vite narrabili): è uno che ha visto tutto, ha fatto tutto, e nel raccontartelo ti dice anche che sì, Tizio è tanto caro ma è un pirla, e la tal cosa su cui va di moda pensarla così secondo lui è invece cosà.
Di recente c’è stata, sull’intervista al New Yorker di Jeremy Strong (che in “Succession” è uno dei figli di Cox), una polemica così enorme che gente dello spettacolo, da Jessica Chastain a Aaron Sorkin, è dovuta intervenire a difenderlo. Era un’eccezione: un’intervista a un grande giornale in cui l’intervistato non dice solo che vuole la pace nel mondo e l’intervistatore non dice solo quanto è bravo e bello. L’abbiamo letta tutti perché, pensa un po’, un articolo che dica delle cose fa di più, per rendere l’intervistato interessante, d’un articolo cerimonioso e piatto e compiacente.
Le reazioni indignate all’eccezione hanno dimostrato che essere degli esseri umani complessi e sfaccettati e difettosi è privilegio ormai riservato alla generazione di Cox (Jeremy Strong ha 43 anni). La rivista di cinema Deadline, intervistando Cox su “Putting the Rabbit in the Hat”, gli ha chiesto conto di quella polemica. Gli ha chiesto – a Brian Cox, alla sua stanchezza, alla sua guittezza – se temesse d’essersi messo, con l’autobiografia, nella stessa posizione vulnerabile in cui s’era messo Strong con l’intervista. E Cox ha risposto come non vedo l’ora d’arrivare a 75 anni per rispondere: «Senta: sono troppo vecchio, troppo stanco, e troppo talentuoso per queste stronzate».