il venerdì, 21 gennaio 2022
La città nel deserto voluta da Al Sisi
Per vedere il futuro dell’Egitto occorre prendere una macchina e guidare per un’ora in direzione Est partendo dal centro del Cairo. Lasciarsi alle spalle le piramidi di Giza, il Museo egizio e tutto quello che si pensa di sapere sul Paese dei faraoni: e infine, non farsi spaventare dal deserto. Perché è solo dopo averne attraversato un bel tratto, oltrepassato un casello autostradale che separa il nulla da altro nulla, che il futuro si palesa. Lo scheletro di un grande arco prima; complessi di palazzine deserte poi. Infine, un’isola di grattacieli che assomigliano a quelli di Doha o di Dubai. Tutto intorno, dozzine di gru: e un grandissimo vuoto.
La città fantasma che attraversiamo non ha un nome ma un destino chiaro: “New administrative capital” recitano i cartelli con le indicazioni e i titoli dei giornali di Stato che ne tessono le lodi. È la nuova capitale dell’Egitto, il conglomerato urbano senza ancora un nome che il presidente Abdel Fatah Al Sisi ha deciso di costruire dal nulla per farne il centro della vita del Paese: qui, secondo i piani del governo, nel giro di qualche mese si sposteranno ministeri, ambasciate e milioni di persone, lasciandosi alle spalle la caotica e sovraffollata Cairo.
58 miliardi di dollari
Per Al Sisi questo è il gioiello della corona, il più importante degli interventi con cui sta cercando di ridisegnare il volto dell’Egitto: l’equivalente di ciò che fu la nazionalizzazione del Canale di Suez per Nasser e l’edificazione delle Piramidi per i faraoni. E faraonici sono i costi stimati: 45 miliardi di dollari sette anni fa, quando iniziarono i lavori, oggi diventati 58. Tutti gestiti dall’esercito, la più potente macchina economica dell’Egitto, quella che è coinvolta in ogni settore dell’economia e che nella nuova capitale tramite le sue controllate ha in mano tutto: dalle costruzioni di strade e palazzi all’installazione di telecamere di controllo ad ogni angolo.
A più riprese il presidente ha definito l’inaugurazione come “la nascita di un nuovo Stato” o “la proclamazione di una nuova Repubblica": espressioni grandiose che però, nel vuoto del deserto, finiscono per suonare inquietanti. Lungo le strade, una serie di giganteschi cartelloni pubblicizzano il futuro che verrà. Hyde park o Palm Hills sono i nomi di complessi residenziali che promettono di “ridefinire il concetto di lusso” e di regalare ai loro abitanti una “magnifica giornata lavorativa”. Ma il verde e le piscine che sono nelle fotografie sono un miraggio e i grattacieli, quando va bene, non sono che scheletri circondati dalla sabbia. Di abitanti, in una giornata di qualche settimana fa, in città non ce ne era neanche l’ombra: cani e operai spuntavano qua e là. A loro, spiegava un guardiano, si uniscono a volte gli studenti di una delle università del Cairo, che ha già spostato qui il suo campus: e poco altro.
Non molto per una città che, una volta completata, dovrebbe occupare una superficie equivalente a quella di Singapore e ospitare 6,5 delle 22 milioni di persone che oggi vivono al Cairo. Ricchi per lo più: gli unici che possono permettersi di pagare 60 mila dollari di media per un appartamento di due stanze da letto in un Paese in cui il reddito medio annuo è di tremila dollari. E di avere una macchina adeguata: la linea ferroviaria che dovrebbe collegare la capitale al Cairo e alle zone circostanti oggi non è che un binario sospeso.
Ossessione Piazza Tahrir
"È molto più di un progetto urbanistico – spiega Maged Mansour, analista politico egiziano e analista per il Carnegie Endowment Center – alla base c’è prima di tutto un’idea politica: quella di separare il potere da una realtà, come quella del Cairo, che potrebbe essere destabilizzante. Al Sisi è ossessionato da quello che è accaduto nel 2011, la folla in piazza Tahrir che costrinse Mubarak alle dimissioni. Nella nuova capitale amministrativa vivrebbero solo persone che lavorano per il governo o si muovono intorno ad esso, riducendo così il rischio di rivolte. L’attenzione si sposterebbe qui, lasciando il Cairo, le sue masse urbane, le sue potenziali rivolte ai margini: il che vuol dire che se qualcosa accadesse, se ci fosse bisogno di mettere in atto una repressione, il governo potrebbe farlo lontano dalle luci dei riflettori. E allo stesso tempo resterebbe al sicuro: chi marcerebbe per 50 chilometri nel deserto per protestare contro un presidente?”.
Un piano politico dunque, che nel 2022 ha una data chiave. Secondo i programmi iniziali, la capitale avrebbe dovuto prendere vita nel 2020. Ma la pandemia e i problemi finanziari che il progetto ha incontrato – inizialmente si era parlato di finanziamenti emiratini, poi cinesi: in entrambi i casi il supporto è stato ritirato per mancanza di trasparenza – hanno fatto spostare tutto al 2021.
Corsa contro il tempo
Nell’anno appena trascorso, il governo ha fatto di tutto per rispettare, almeno nelle apparenze, la data fissata: i primi uffici hanno cominciato ad aprire in autunno e l’esecutivo ha tenuto qui una riunione a fine dicembre. Non solo: nella nuova cattedrale cristiana, la più grande del mondo arabo con la sua capienza da ottomila fedeli, si sono svolte il 6 gennaio le celebrazioni del Natale copto. Ma la realtà è che intorno alle poche strutture completate – la cattedrale appunto, due moschee, gli edifici della Sicurezza nazionale e qualche altro palazzo – c’è ancora deserto. Difficile ad oggi immaginare che tanto vuoto riesca ad essere colmato per l’autunno prossimo, quando in Egitto si svolgerà la Conferenza Onu sul Clima Cop27 e Al Sisi vorrebbe presentare al mondo il suo gioiello.
Eppure il presidente appare determinato: nelle ultime settimane i suoi uomini hanno condotto un durissimo braccio di ferro con i diplomatici stranieri che rifiutano l’idea di trasferire le ambasciate nella nuova città abbandonando i loro edifici storici del Cairo. E il parere dei tanti storici e archeologici che denunciano la possibilità di un abbandono del Cairo, già di per sé sovraffollata e priva di risorse, viene sistematicamente ignorato dai media di Stato: “L’idea è quella di una società separata – conclude Mandour – una sorta di oscuro sogno fantascientifico a cui nessuno pare avere il potere di opporsi”. Un sogno che fra le sabbie del deserto sta diventando realtà.