il venerdì, 21 gennaio 2022
Emeriti a chi? Che fine fanno gli ex presidenti
Sempre che vada nel modo in cui si è detto e ridetto, è comunque difficile immaginare la vita pubblica e privata di Sergio Mattarella fuori dal Quirinale. La nuova casa, d’accordo, i nipoti, qualche lieta lettura a lungo rinviata, una sospirata libertà da incombenze e cerimoniali, anche se quella carica lascia un bel vuoto. Lo aspetta un vasto ufficio a Palazzo Giustiniani, tanto rinomato per essere il più buio di Roma che già Enrico De Nicola l’aveva soprannominato “la Tomba”. Qui la Repubblica mostra la propria generosità ai suoi ex presidenti consentendo loro di mantenere, insieme col titolo di senatore a vita, alcuni collaboratori di vario genere, in fondo una piccola corte dislocata in due o tre stanze.
Sempre che non accetti in extremis il sacrificio di farsi rieleggere, è pur vero che fra i tanti uomini di Stato Mattarella è quello che più di ogni altro ha speso parole sagge non solo e non tanto sul potere, quanto sui contraccolpi che esso procura alla natura umana: “La storia insegna che l’esercizio del potere può procurare il rischio di far inebriare, di perdere il senso del servizio e di far invece acquisire quello del dominio” disse nell’autunno del 2018 a un gruppo di studenti liceali. In quella circostanza Mattarella delineò anche gli antidoti e fra quelli più direttamente personali, forse anche in previsione del “dopo”, volle elencare: “Capacità di autodisciplina, senso del limite, dell’autocontrollo, e perfino autoironia”.
Dai legionari a Foscolo
Proprio volgendo attenzione a quest’ultima – sempre che, ribadito per la terza e ultima volta, le congiunzioni politiche e astrali assecondino il proposito di concludere definitivamente la propria esperienza sul Colle – si dirà qui l’imbarazzo di immaginare Mattarella come un “Emerito”. Parola originariamente assegnata al soldato romano che si congedava con onore dopo tante battaglie, e che secondo i dizionari etimologici Foscolo innalzò al valore civile da tempo in uso nelle università e alla Corte Costituzionale; ma che solo da una ventina d’anni risulta indicata nella normativa con cui la Presidenza del Consiglio (2001, secondo governo Berlusconi) riordinò lo status degli ex Capi di Stato prevedendo per essi la specifica denominazione di “Presidente emerito della Repubblica”. L’imbarazzo è dovuto al fatto che in Italia, fertile terra di buffonerie e cachinni, spesso e volentieri volgarmente estesi alla vita istituzionale e ai suoi inesorabili orpelli, il termine “emerito” si accoppia anche a oltraggiose espressioni di cui “emerito imbecille”, per restare ai lavori di Tullio De Mauro, è solo la più lieve e innocua.
Ce n’è quanto basta per pensare che Mattarella, spirito clandestinamente sardonico, se ne renda ben conto. E tuttavia non solo dal punto di vista lessicale appare problematico il mestiere degli ex; perché vari e interessanti sul piano della storia e del costume politico sono pure i comportamenti. Così, nell’arco di una generazione, c’è chi ha fatto di tutto per restare in campo, vieppiù intensificando o addirittura mutando le forme della propria personalità: è il caso di Cossiga e in qualche modo di Scalfaro. Chi invece, vedi Carlo Azeglio Ciampi, per carattere austero o per scelta di riserbo, si è mantenuto nell’ombra lasciandosi però sfuggire quasi in extremis: “Sto vivendo in un Paese ben diverso da quello che avevo sognato in gioventù”. E infine chi, come Napolitano, non ha fatto nemmeno a tempo a sentirsi pienamente emerito, né per la verità a svuotare gli scatoloni a Palazzo Giustiniani, perché immediatamente rieletto al Quirinale, con le raddoppiate fatiche e responsabilità del caso.
Benvenuti nel club k.
Così, per capirsi meglio, e con l’ovvia premessa che su certe materie connesse alla quintessenza del potere la comunicazione è molto spesso assai poco trasparente, molto lascia pensare che il riordino sullo status degli ex presidenti sia dovuto proprio alle insistenze dell’Emerito Cossiga, che nella sua pignoleria probabilmente contribuì anche a cesellare quel gioiellino normativo di Palazzo nel quale un fasto dissimulato in veste istituzionale s’accompagnava a vantaggi al tempo stesso ragionevoli e consolatori: passaggi su auto di Stato, treni (era menzionata una inesistente “carrozza presidenziale"), natanti e aeroplani di Stato, spese telefoniche e così via. Tali prerogative a loro volta si riverberavano anche in pennacchi e benefits, ma molto all’italiana, o meglio alla democristiana, facendosi cioè precedere da ripetuti periodi ipotetici, “se”, “ove”, “nel caso”; il che, per dire, nella pratica dispensava, ma fino a un certo punto, le autorità portuali e aeroportuali a esibire la specifica bandiera degli ex presidenti, con tanto di fregio araldico allegato, in partenza e all’arrivo degli Emeriti; così come quelle militari potevano, grazie alla benevolenza dell’Emerito, esentarlo dal comandare i pur dovuti onori. Fermo restando, nella inesorabile distribuzione di posti durante le cerimonie palatine, che l’Emerito più anziano precedeva il Presidente del Senato, in tal modo retrocesso a terza autorità dello Stato; mentre l’emerito più giovane era comunque proiettato davanti a quello della Camera.
Ma più in generale, detto con rispetto e perfino con simpatia, una volta sceso dal Colle Cossiga fece ben altro che pretendere, ispirare e magari collaborare alla stesura di quelle norme. Assegnatosi il compito di sciamano della Seconda Repubblica, e sceltosi il Gatto Mammone come vezzoso animale totemico, l’Emerito Mammone fondò partiti, formò governi, battezzò ordini pseudo-cavallereschi, quello ad esempio de “I Quattro Gatti”, con tanto di emblema e cravatte, oltre a dar vita al “Club K”. A nome del quale non si limitò a comunicare al pubblico di avere il cancro più un’altra nutrita serie di malanni, ma anche, in modo non proprio simpatico, rivelò che il medesimo male l’aveva uno dei suoi successori. Volò poi da Gheddafi, prese le difese degli indipendentisti baschi con serie conseguenze diplomatiche da parte della Spagna e si mise a investigare su temi delicatissimi girando golosamente le informazioni a Dagospia, quando non se le scriveva da solo firmandosi con almeno un paio di pseudonimi (Franco Mauri e Mauro Franchi). Una o due volte, sembra di ricordare, tentò anche, seppure invano, di dimettersi da senatore a vita. Il tutto all’insegna della libertà e della verità, per quanto sulfuree potessero apparire l’una e l’altra agli occhi degli altri potenti, e senza mai dimenticare la sua riconosciuta condizione istituzionale di Emerito.
Dalla chiesa ai girotondi
È dubbio che Oscar Luigi Scalfaro, suo asperrimo avversario e anche per questo eletto al suo posto, si sia compiaciuto della sua nuova condizione. Certo non come Mattarella, ma anche lui disdegnava abbastanza pompe e insegne di facciata. Eppure, cessato il settennato, anche la sua vita pubblica prese una piega che venti o trent’anni prima si sarebbe detta imprevedibile; nel senso che il dc più devoto a Santa Romana Chiesa, già protagonista di epiche scenate contro le spalle nude di una signora, allievo di Scelba e come pochi altri dc avverso al centrosinistra, passò gli ultimi anni del suo impegno a perfetto agio con Umberto Eco, Pietro Ingrao, Pancho Pardi e altri girotondini che l’avevano scelto come icona vivente e protettore della Costituzione.
Pochi altri uomini di Stato continuarono, come Scalfaro, a essere inflessibili con il berlusconismo, il conflitto d’interesse, le leggi ad personam, la guerra. Un ex presidente di battaglia per una storia che, di Emerito in Emerito, continua a sorpresa anche quando è terminata.