Dove, a giudicare dal calore del suo esordio in buca, I Capuleti e i Montecchi di Bellini (in scena fino al 2 febbraio), è già una di casa. Grandi applausi per la prima uscita, all’intervallo e ovazioni alla fine.
Se l’aspettava?
«No, è stato bellissimo, toccante.
Soprattutto all’inizio. Mi ha dato la carica da condividere con l’orchestra e la sala. Il nostro compito, come artisti, è creare e spartire bellezza e energia. È il bello del nostro mestiere. Da musicisti, abbiamo anche la responsabilità nel cercare la “verità” nei capolavori che affrontiamo. Ma senza saper comunicare, serve poco».
Un bel modo per siglare una vicenda artistica fortunosa.
«Considerando il modo e i tempi quando sono arrivata in Scala la preparazione era già avanzata, l’orchestra e il coro non la eseguivano da venticinque anni, le prove poche è andata bene. Potrà migliorare nel corso delle recite: ma tutti mi hanno dato fiducia e entusiasmo, impegnandosi al massimo».
Ma quanto tempo è passato tra la telefonata di Dominique Meyer che le proponeva di «salire sul cavallo in corsa», a dieci giorni dalla prima, e la sua risposta?
«Dieci minuti, forse un quarto d’ora.
Il tempo di riprendere in mano la partitura, metterla su pianoforte, ricordare come l’avevo fatta nove anni prima in un college statunitense (in forma ridotta e aggiustata) ma vedere dalle fitte annotazioni come l’avevo ben studiata tutta. Avrei potuto farla. Poi, però, ci sono stati due giorni di ripasso matto e disperatissimo prima di arrivare alla Scala dove, per la prima volta, mi sono trovata a provare e dirigere nello stesso tempo».
Per di più con Lisette Oropesa e Marianne Crebassa, le protagoniste al debutto. Privilegio o fatica in più?
«Un vantaggio. Anche se soltanto con Oropesa aveva già avuto occasione di lavorare prima. Questo repertorio esige flessibilità e voglia di far musica insieme. Ci siamo subito messi al pianoforte per vedere insieme le parti, è stato facile».
Al pianoforte suonava lei?
«Quasi sempre. Poter sentire sotto le dita come assecondare il belcanto è
più che una necessità: è un piacere musicale unico».
Ma, il giorno dopo può dirlo, la Scala è veramente diversa?
«Sì, se ne sente la storia. Ti schiaccia ma ti esalta. Senti una grande responsabilità ma l’euforia di essere nel teatro di Verdi, e non solo. C’è un’atmosfera che, per chi fa musica, sembra banale da dire, è proprio magica».
Direttrice in locandina, proprio non l’aveva letto?
«A questa declinazione non penso mai. Il mondo va avanti. Io sono una professionista che vuole fare, senza dimostratività di genere, il suo lavoro».
Ma il termine «direttrice» non l’ha mai ostacolata?
«No. Anche alla Scala ho preso l’occasione al volo ma è arrivata al momento giusto. Nel senso che il mio percorso professionale, la mia esperienza e preparazione me lo consentivano».
E, in generale, ha mai sofferto il genere?
«Quando ho cominciato, ero nelle stesse condizioni, con le stesse paure e passioni, aspirazioni e competenze di un collega».
Quindi non pensa nemmeno di aver perso delle occasioni perché donna? Né subito ricatti?
«Ho sempre trovato chi mi ha dato fiducia. A loro sono piaciuta come musicista, e come persona. Poi, certo, non si può piacere a tutti (ride, ndr ), soprattutto se abbiamo idee e carattere».
Però la nostra società continua a rinunciare troppo spesso a provare il talento femminile nei ruoli dirigenziali. S’è mai chiesta come mai?
«Non me lo spiego, se non con la lentezza con cui la storia si libera delle vecchie tradizioni. Per quel che riguarda la musica, oramai non siamo più eccezioni. Quindi, per fortuna delle giovani che vogliono provarci – e sono molte, a giudicare dai messaggi di vario genere, dalle richieste di consigli eccetera che ricevo – hanno dei modelli cui guardare».
I suoi quali erano?
«Io non avevo modelli però ce l’ho fatta».
Fortuna o testa dura?
«Sono ariete. Volontà, tenacia, voglia di fare. Credo di avere il carattere adatto per questo mestiere».
Spesso si dice che il direttore d’orchestra sul podio è «un uomo solo». E la direttrice?
«No, al contrario. Occorre saper decidere, avere capacità e carisma da leader ma senza essere aperti alla collaborazione non si fa musica bene».
Quand’è uscita per i ringraziamenti, s’è fatta notare anche per le scarpe squillanti…
«La scarpa rossa alta la indosso dal debutto. A parte essere elegante, è un simbolo della lotta delle donne, un colore che risponde bene al mio nome di battesimo, un tocco di femminilità che mi piace…».
Un gesto scaramantico?
«Preferisco considerarlo un rito. In fondo siamo a teatro».