Sushman fa parte della folta schiera di imprenditori, investitori e broker internazionali - soprattutto americani, coreani e giapponesi che vanno cercando un sentiero che li conduca al nuovo eldorado kazako. Il 18 per cento di tutto il mining mondiale è qui, dove nel 2021 quasi 90 mila società si sono insediate dopo la fuga dalla Cina per la stretta al consumo dell’energia.
Una migrazione che non è passata inosservata.
«Le industrie metallurgiche kazake che hanno accesso a grandi quantità di energia sono soprattutto a sud e a nord. Quando i miners cinesi sono arrivati, il governo kazako si è accorto che all’improvviso alcuni impianti avevano preso a consumare quantità enormi di megavatt, mettendo in crisi il sistema elettrico nazionale. Erano miners illegali, quindi è dovuto intervenire dichiarandoli fuori legge».
Quante sono le compagnie registrate?
«Non è chiaro. Secondo articoli giornalistici quelle registrate ufficialmente come miners sono una cinquantina, ma il numero esatto non si sa. In Kazakhstan arrivano due tipi di imprenditori del settore: coloro che vogliono semplicemente connettere i propri computer alla rete elettrica e coloro che invece fanno investimenti milionari, cercando siti industriali adatti dove posizionare i container, installare le macchine, predisporre i sistemi».
Perché proprio in Kazakhstan?
«Per tre motivi: l’energia elettrica costa poco; il clima è freddissimo e secco, e ciò permette ai miners di ridurre i costi per i condizionatori; per il fatto non secondario che l’Aifc cui bisogna registrarsi risponde alla british common law e non alla giurisdizione ordinaria kazaka. In caso di contenzioso, è un vantaggio».
In Kazakhtan non c’è bisogno di raffreddare database e computer?
«Solo tra giugno e settembre.
Tempo fa mi avevano offerto l’opportunità di lavorare a Dubai, ma ho rifiutato proprio per la temperatura: con 40-45 gradi all’esterno non è conveniente, sei costretto a spegnere a intervalli regolari 100-200 macchine alla volta. Quando le spegni, perdi soldi».
Però, come si è visto di recente, decentralizzare in un Paese guidato da un regime può comportare che la Rete venga all’improvviso interrotta per decisione del governo.
«Il rischio politico è alto, non lo nego. E bisogna fare attenzione a dove si sceglie di investire, perché a volte ti capitano siti in luoghi improbabili, nel mezzo del nulla, tra quartieri di ispirazione sovietica dove sembra di tornare negli anni Sessanta».
Cosa ha comportato l’oscuramento della Rete durante il tentato colpo di Stato?
«Molti miners hanno spento i computer: quando li hanno riaccesi la condensa ghiacciata che si era formata sui circuiti li ha rovinati».
Gli Stati Uniti sono al primo posto per concentrazione di miners. Perché non investe lì?
«Abbiamo tasse troppo alte e problemi con i voltaggi. Abbiamo anche le cosiddette Trump’s tariffs (i dazi imposti dall’ex presidente sul commercio con la Cina, ndr) che vanno oltre il 20 per cento».
Cosa prevede che accadrà in Kazakhstan nel futuro prossimo?
«Verranno costruiti impianti energetici ad hoc, che riserveranno il 10 per cento della produzione per i miners. Ma ci vorrà tempo».
Il governo potrebbe chiedervi di contribuire?
«Il modello di accordo che vorrei stipulare prevede di cedere allo Stato il 10 per cento del fatturato da investire in tecnologie e scuola».