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 2022  gennaio 20 Giovedì calendario

Le miniere di Bitcoin usano troppa energia

«Un problema nazionale». Così Erik Thedéen ha definito la creazione delle criptovalute. Nominato un mese fa vicepresidente dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, l’economista svedese ha proposto di vietare l’attività di estrazione del Bitcoin e dei suoi fratelli per la crescente percentuale di energia rinnovabile che assorbe. Impedirebbe di raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi. «Bisogna avviare una discussione sul tema e puntare a tecnologie più efficienti», ha dichiarato al Financial Times. «L’industria finanziaria e molte grandi istituzioni sono attive nel campo delle criptovalute. Hanno responsabilità ambientali, sociali e di gestione», ha aggiunto. Thedéen però non propone un divieto a tutto campo, punta invece il dito sul sistema del “proof-of-work”, usato fra gli altri da Bitcoin ed Ethereum, dove un algoritmo deve risolvere equazioni matematiche estremamente complesse per generare la moneta virtuale usando una potenza di calcolo elevata e quindi consumando energia. Non è l’unica strada percorribile, da qualche tempo si stanno affermando altri protocolli per validare le transazioni e creare criptovalute come il “proof-of-stake” che assorbono molta meno elettricità. Non è però il caso del Bitcoin. «Tecnicamente lo si potrebbe far migrare da “proof-of-work” a “proof-of-stake”», spiega Valeria Portale, direttrice dell’Osservatorio Blockchain del Politecnico di Milano. «Operazione difficile, proprio in virtù di una gestione decentralizzata, visto che tutti i minatori dovrebbero essere d’accordo. Il tema del consumo è reale, ma non ne farei una crociata. Anche perché dubito che i divieti portino a qualcosa se non a migrazioni di massa delle “miniere”, come è successo da Cina a Kazakistan, con conseguenze imprevedibili».
Già a marzo Alex de Vries, analista della divisione crimini finanziari della banca centrale olandese, aveva stimato che l’intera rete Bitcoin consumerebbe fino a 184 terawattora all’anno, una quantità di energia pari a quella assorbita da tutti i data center a livello globale. «È un numero strabiliante», aveva commentato de Vries. «Quei data center servono per fornire servizi digitali a tutto il mondo. Il Bitcoin invece non serve quasi nessuno».
In realtà, stando al Bitcoin Electricity Consumption Index dell’Università di Cambridge, la struttura legata al Bitcoin consumerebbe circa 134 terawattora. Poco meno della metà di quanto consuma un Paese come l’Italia. E non c’è modo di sapere davvero quanta di questa energia viene dalle rinnovabili. Ma in tutti i casi si tratta del consumo di una nazione di dimensioni medie.
Una parte del mondo della blockchain, in Europa, si sta muovendo verso le rinnovabili e guarda ai sistemi che hanno un’efficienza maggiore. In alcuni casi, rari, centrali idroelettriche vengono rinnovate grazie ai profitti derivanti dall’istallare al loro interno dei centri dati per produrre Bitcoin. Succede in Svizzera e succede in Italia grazie alla Alps Blockchain, compagnia di Trento fondata da due ventenni che collabora già con 18 centrali. Impiegano dal 30% al 70% della corrente per alimentare reti di pc per generare valuta virtuale con un aumento delle entrate del 100%. L’energia potrebbe esser impiegata in altro modo, eppure quelle centrali possono ora rinnovarsi, investire e produrre di più.
«Affermazioni quali “il Bitcoin consuma tanta energia quanto la Svezia” lasciano il tempo che trovano», ribatte Francesca Failoni, cofondatrice di Alps Blockchain. «Sarebbe più coerente confrontare gli Stati con gli Stati, e i sistemi tecnologici con i sistemi tecnologici. Secondo le stime dell’Università di Cambridge l’intera rete di Bitcoin consuma circa il 35% di energia in meno dei data center. Oggi si stima che quasi il 60% dell’industria del “mining” di Bitcoin è basata su energie rinnovabili e questa conversione è avvenuta nel giro di un anno, più velocemente che in molti altri settori». Secondo l’imprenditrice trentina la scelta starebbe quindi fra combattere il cambiamento tecnologico o cercare di renderlo più sostenibile.«Bisognerebbe avere uno sguardo più ampio, definendo nel complesso confini e regole di questo settore invece di vietare», conclude la docente del Politecnico di Milano. L’Europa lo sta facendo, ma serviranno anni e nel frattempo uscite come quella di Thedéen possono avere come effetto immediato solo delle oscillazioni nel valore delle monete stesse.