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 2022  gennaio 19 Mercoledì calendario

Storia dei criptoritratti

Il diluvio di scritti di storia dell’arte è incessante e sempre più fitto. Eppure a volte non esiste neanche un buon libro su tanti temi interessantissimi. Uno di questi è relativo ai cosiddetti “criptoritratti”. Cosa sono? Il termine (letteralmente: ritratti nascosti) fu coniato da Gerhart Ladner in un saggio del 1983 e venne ripreso da molti specialisti. Per esso si intende la rappresentazione di una persona reale nelle vesti e con gli attributi distintivi di un altro personaggio, solitamente antico, celebre per diverse ragioni. Per lo più si tratta di santi, ma non mancano le figure mitologiche e, in qualche caso, addirittura Cristo e la Vergine. Come documentano varie statue giunte fino a noi, si tratta di una formula iconografica attestata nella classicità, che cadde in disuso nell’alto medioevo per risorgere a partire dal XIV secolo. Dai primi del Quattrocento si diffuse in Europa, diramandosi dai centri di produzione principali per raggiungere anche periferie estreme. Ebbe fortuna in età barocca e rococò (specie nelle corti), ma anche nell’Otto e Novecento non ne mancano esempi significativi.
A cosa si deve la relativamente scarsa attenzione storiografica a tale filone? Probabilmente alla difficoltà spesso insuperabile di poter dimostrare con certezza che, ad esempio, sotto quel determinato santo (di solito omonimo) ci celino le fattezze del committente dell’opera. Tuttavia, più banalmente, l’impasse critica dipende soprattutto dal fatto che fino a oggi – a quel che mi risulta – nessuno si è preso la briga di mettere insieme le centinaia di attestazioni di “ritratti nascosti” disseminate nelle fonti antiche. Tra le prime, quelle nel Libro di Antonio Billi, nel Codice Magliabechiano e nelle Venti vite di Giovan Battista Gelli : ma è soprattutto dalle Vite di Vasari (1550 e 1568) che si può pescare ad abundantiam. Qui decine e decine di segnalazioni dimostrano che la prassi era diffusa ovunque e la sua coscienza consolidata.
Al di là di tale inoppugnabile testimonianza, sussistono inoltre carte d’archivio che a volte svelano storie straordinarie. Una di esse ci è narrata nel 1500 dal miglior allievo di Leonardo, Giovanni Antonio Boltraffio, nella cosiddetta Pala Casio al Louvre. Seduti a terra, la Madonna col Bambino guardano verso di noi, affiancati da due santi in piedi (il Battista e Sebastiano) e da due laici in ginocchio: il più giovane era il poeta bolognese Girolamo Casio e il più anziano suo padre Marchione. Girolamo era un amico dell’artista, lo celebrò nelle sue Rime e gli richiese vari ritratti. Tuttavia, a sconcertare è la somiglianza tra la Vergine e una Dama effigiata dallo stesso pittore in una tavola conservata nella collezione Borromeo a Isolabella. Impostazione del busto, testa e sguardo sono gli stessi, quasi sovrapponibili, al punto che è lecito credere che sia stata eseguita proprio in funzione della pala. Chi era questa donna? È facile intuirlo: la moglie di Girolamo. Nell’autunno del 1497 questi era tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa, scampando alla morte; subito dopo, la consorte concepì due maschi, gli eredi tanto attesi, uno dei quali scomparve in tenera età. La pala celebra entrambi gli eventi. Per impostarla, Casio dovette prescrivere a Boltraffio esattamente quel che l’anno precedente aveva raccomandato a Francesco Francia, alle prese con un’ Adorazione del Bambino da porsi nella medesima chiesa della Misericordia a Bologna da cui proviene pure il quadro ora a Parigi. Egli sottolineò che era bene prendere quali modelli per la Vergine, il Bambino e i santi proprio i membri della famiglia Bentivoglio che aveva commissionato l’opera. La scelta si spiega alla luce di quanto diffuso dai manuali devozionali dell’epoca, in cui – per facilitare l’interiorizzazione degli episodi dei testi sacri – si suggeriva di immaginarne i protagonisti con i volti di persone conosciute e in luoghi familiari.
Invero pochi si fecero rappresentare nei panni di Cristo e Maria, ma a volte furono gli stessi artisti a osare. Come Albrecht Dürer. Di lui restano vari autoritratti, a varie età e in varie modalità. Ma il più sorprendente è forse quello conservato a Monaco, del 1500, in cui appare a mezzo busto, con i lunghi capelli sciolti sulle spalle, atteggiandosi a Cristo.
Ancor più audace quanto fatto da Giorgione in un autoritratto in figura di David visto da Vasari in casa Grimani a Venezia (per molti riconoscibile in un frammento a Braunschweig e in una stampa di Hollar del 1650). Ci si chiede: perché non decise di immedesimarsi in san Giorgio, di cui portava il nome? Si possono fare solo supposizioni. Quel che è certo è che – come si legge in tanti commenti alla Bibbia editi tra Quattro e Cinquecento – in David si coglieva una prefigurazione di Cristo («per David se intende Cristo») e quindi in una sola immagine il maestro di Castelfranco propose una triplice compresenza: la sua, di David e di Cristo. Si tratta di una scelta sofisticata, che implica la volontà di richiamare le virtù e le caratteristiche dell’umile pastorello che seppe sconfiggere il Male rappresentato dal gigante Oloferne. È curioso che anche Michelangelo, in un appunto relativo al suo gran marmo, scrisse: « Davicte cholla fromba. E io collarcho Michelagnolo », in questo modo proponendo una sorta di equiparazione tra sé e l’eroe biblico. Il quale nell’iconografia rinascimentale veniva spesso associato a Giuditta, che decollò Oloferne e che pure frequentemente fu adottata per criptoritratti: lo fecero, più volte, Lucas Cranach, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi. Il senso di tali operazioni era, appunto, quello di visualizzare il proposito di incarnare le virtù dei personaggi sacri in cui ci si travestiva.
Tuttavia, il processo di incessante rielaborazione formale e concettuale che attraversò il XVI secolo condusse ad esiti addirittura opposti, come dimostrano il David di Caravaggio alla Borghese e la Giuditta di Cristofano Allori a Pitti e Hampton Court. Nel primo, com’è noto, il Merisi decise di autoritrarsi nel protagonista negativo ed esecrabile. Lo fece negli ultimi tempi della sua fuga dannata. Forse avendo una premonizione della sua prossima fine, identificandosi in Golia, ammise le sue colpe: con gli occhi e la bocca semiaperte, cosciente, nell’ultimo secondo della sua vita. Drammatico nelle intenzioni ma quasi comico nella resa, fu invece quanto escogitato da Allori. Narrano le cronache che si era perdutamente innamorato di una bellissima cortigiana di nome Mazzafirra, di cui non riuscì a conquistare l’anima: decise pertanto di manifestare il dolore della sua passione ritraendosi in Oloferne, la cui testa (questa volta con occhi e bocca chiusi, da morto vero) è retta da una giovane donna che ci fissa con aria di sfida. Il risultato colpì molto all’epoca e non si contano le copie di tale composizione giunte fino a noi. Il rovesciamento dei valori antichi risulta così compiuto, portandoci oltre la soglia di una diversa modernità.