Corriere della Sera, 19 gennaio 2022
I ricordi di Lidia Maksymowicz, usata come cavia dai nazisti
«Come ho fatto a ricordare se non avevo nemmeno quattro anni quando, nel dicembre 1943, arrivai con mia madre alla stazione di Auschwitz-Birkenau, in mezzo alla neve e al ghiaccio? La paura, il terrore, tutte le emozioni furono profondissime, impossibile dimenticarle, sono vive ancora oggi, impresse nella mia vita. E poi c’è questo numero sul braccio sinistro, il 70072, che mi impedirà per sempre di dimenticare».
Lidia Maksymowicz è una ottantenne dallo sguardo diretto e deciso, ancora energica nel fisico e soprattutto nel tono della voce: capelli bianchi e corti, occhiali, lo sguardo diretto. Ha alle spalle un’infanzia negata dalla più atroce delle esperienze, l’internamento nel campo di Auschwitz-Birkenau, uno dei teatri dell’immensa tragedia che ha sconvolto l’Europa nel cuore del Novecento. La sua storia è ora raccontata nel libro La bambina che non sapeva odiare , scritto col giornalista e saggista Paolo Rodari per Solferino editore: una prosa secca, priva di concessioni alla retorica, densa di particolari. Ad aiutarla nel ricordo, come scrive proprio Rodari nella postfazione, hanno collaborato Jadwiga Pinderska Lech, presidente della Fondazione vittime di Auschwitz- Birkenau, e l’associazione italiana «Aps la memoria viva» di Castellamonte, in provincia di Torino, presieduta da Roberto Falletti.
L’associazione ha realizzato, da un’idea di Falletti, un docufilm diretto da Elso Merlo che ha ispirato il libro, strutturato come un ininterrotto racconto interiore in cui la memoria viva emerge tra mille difficoltà legate all’età. Scrive Lidia: «A volte torno a chiedermi: ero troppo piccola perché oggi possa raccontare? Difficile rispondere. Di certo c’è che circa tredici mesi a Birkenau segnano nel profondo a qualsiasi età. Quei giorni, mesi, anni, sono una ferita che mi accompagna da sempre e che, lo so, mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni. E anzi, il fatto di non ricordare ogni cosa per filo e per segno accresce il dolore che questa ferita provoca, il suo peso. Di non tutti gli abusi subiti ho piena coscienza. Eppure ci sono stati. Eppure ci sono. Vivono dentro di me, nel mio inconscio. Sono i miei compagni di viaggio». Tre le introduzioni, una di Papa Francesco e due di altri famosi scampati ai campi di concentramento nazisti, Liliana Segre e Sami Modiano.
Lidia è diventata famosa nel mondo per uno scatto fotografico. È mercoledì 26 maggio 2021, alla fine dell’udienza generale in Vaticano Papa Francesco si avvicina a lei, le parla, le bacia il numero nero marchiato dai nazisti sul braccio. Dice Lidia: «Sono molto grata a Papa Francesco per questo gesto che per me non è rivolto tanto alla mia modesta persona ma a tutti i bambini morti nei campi, privati del loro diritto alla vita, quasi sempre uccisi subito». Lidia non è ebrea, come la stragrande maggioranza degli internati, ma cattolica (nata ortodossa) e naturalizzata polacca. Viene dalla regione bielorussa di Vitebsk ai confini con la Polonia, il suo nome d’origine è Luda Boczarowa. I suoi giovani genitori, la mamma Anna ha appena 22 anni, diventano partigiani quando la regione viene invasa dai nazisti e il loro villaggio viene bruciato. Si legge nel libro: «A differenza di altri, sono consapevoli da subito dell’abominio nazista. Non scendono a compromessi con il potere, non tergiversano. Non dubitano. Si schierano contro Hitler e la sua Germania, scelgono di opporsi. Si mettono dalla parte degli ebrei» che, lì in Bielorussia, vengono subito deportati nei campi dai ghetti delle città.
Luda resta sola con la madre, il padre viene arruolato quasi di forza dall’esercito russo. La mamma e la bambina vivono braccati, con i nonni, sulle colline tra le alture e si accampano in qualche zemlijanka, buche scavate nella terra. Una mattina il gruppo di cui fanno parte Luda e sua madre viene intercettato, la piccola cade nel tentativo inutile di fuga, si ferisce, la cicatrice sulla fronte sarà il primo marchio di mesi in quello che la Lidia Maksymowicz di oggi definisce «il lungo inverno», ovvero l’orrore del nazismo: «Io sono sopravvissuta, mi sento obbligata alla mia testimonianza, una goccia nel mare del crimine, per difendere ciò che c’è di bello nell’essere umano in opposizione all’oscurità in cui ho vissuto. Mi hanno rubato l’infanzia, ma ora devo raccontare nel nome dei duecentomila bambini spariti»
La bambina arriva a Auschwitz-Birkenau, si salva perché finisce tra le piccole cavie degli esperimenti del medico criminale Josef Mengele, di cui lei non rammenta il volto ma solo «lo sguardo di gelo», e che la sottopone a trasfusioni di sangue e ad altri esperimenti di cui Lidia non ha memoria precisa perché torna svenuta, col corpo ricoperto di pustole, le occorrono giorni per riprendersi. Sono pagine di incontri furtivi e disperati con la madre, di altri bambini morti dopo gli incontri con Mengele, di fame e di disperazione, di odori di morte. Una sola consolazione: «Arrivarono da Varsavia alcune ragazze cattoliche, conoscevano molte preghiere, le recitammo insieme». Poi la madre sparisce, finisce in una delle atroci marce della morte verso Bergen Belsen alla fine del 1944, poco prima dell’arrivo delle truppe russe. Infine il campo di Birkenau viene liberato dai sovietici e Lidia viene adottata da una donna del posto con altre bambine: «Non abbiamo più nessuno, siamo ormai orfane, ci serve una famiglia». La piccola, poco a poco, si assimila e diventa polacca, pensando sempre alla madre naturale che ritroverà dopo ben diciassette anni di ricerche reciproche. La mamma era in Russia e, in base alle indicazioni delle autorità sovietiche, continuava a cercare la figlia in territorio russo: «Sì, ho avuto di fatto due madri, sono molto grata alla famiglia che mi ha adottata in Polonia e mi ha assicurato una vita normale, mi ha voluto bene. Ma, dopo averla ritrovata, ho sempre visto e continuato ad amare la mia madre naturale…».
Oggi Lidia ha un figlio, «cresciuto con due nonne», a sua volta è ora nonna. E continua a testimoniare anche per combattere la «nuova nuvola nera» che, dice, si sta «addensando sull’Europa, fatta di odio razziale, etnico, religioso, di nazionalismi. Se potessi parlare a certi giovani che issano vessilli e simboli nazisti, oggi direi che quell’ideologia ha prodotto un orrore inaccettabile di cui sono testimone e che non deve ripetersi mai più»
Il titolo del libro è perentorio: no all’odio. Lo scrive Lidia alla fine del libro: «Non ho mai imparato a odiare e ancora oggi non lo so fare. Chi odia soffre molto più di chi è odiato. Perché spesso chi è odiato non sa di esserlo. Chi odia invece sa che sta odiando e l’odio non può portare che alla morte, alla distruzione personale e collettiva. L’odio è un sentimento che distrugge e basta». E cita la scelta di Liliana Segre quando, alla liberazione del campo di Birkenau, avrebbe potuto uccidere con un colpo di pistola uno dei suoi aguzzini nazisti e non lo fece: «Lei non era come il suo assassino, aveva scelto la vita». Così ha fatto Lidia, mettendo da parte un rancore che conduce solo alle tenebre.