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 2022  gennaio 19 Mercoledì calendario

I timori sui prezzi in salita

L’ultima volta, prima di oggi, che l’inflazione italiana è stata attorno al 4% era il 1996. E in quell’anno il tasso ufficiale di sconto (così si chiamava il tasso d’interesse fissato dalla Banca d’Italia) era del 7,50%. Lo scorso dicembre, l’aumento dei prezzi è stato del 3,9% in Italia e del 5% nell’Eurozona, numeri preoccupanti, ben al di sopra del limite del 2% che è l’obiettivo della Banca centrale europea. Normalmente, come 25 anni fa, quando i prezzi corrono i banchieri centrali si affrettano a rialzare il costo del denaro. Oggi, però, i tassi, ribaditi dalla Bce un mese fa, variano tra il meno 0,50% e il più 0,25%. Un mondo di differenza. Cosa è cambiato? L’inflazione non fa più paura? A Francoforte, i banchieri centrali sanno qualcosa che noi non sappiamo? L’economia funziona in modo diverso rispetto a 25 anni fa?
Che un’inflazione fuori controllo sia un problema serio è vero adesso come allora. Innanzitutto, aumenta i costi per le famiglie e per le imprese. Di conseguenza, crescono le domande di miglioramenti salariali: negli Stati Uniti, dove l’inflazione è al 7% (record dal 1982) e la disoccupazione è molto bassa, sono già evidenti le tensioni nel mercato del lavoro. Ciò crea un circolo vizioso, una rincorsa di aumenti che radica e rende stabile anche un’inflazione nata come momentanea. Inoltre, l’inflazione tende a sfavorire i creditori a vantaggio dei debitori, con il risultato di disincentivare i prestiti fino a quando non si è ristabilito un equilibrio tra aumento dei prezzi e tassi d’interesse. 
Negli anni scorsi, soprattutto dal 2012, le politiche monetarie delle banche centrali hanno combattuto il rischio opposto, la deflazione, cioè il calo dei valori, ritenuta estremamente pericolosa. Ora, di fronte alla crescita globale dell’inflazione, devono – o dovranno – svoltare di 180 gradi, con il risultato che il rialzo dei tassi d’interesse rallenterà la ripresa economica e potrebbe sgonfiare Borse, titoli finanziari e immobili. Con una difficoltà non indifferente: non tutti sono d’accordo nell’individuazione dell’origine della spinta inflazionistica in corso nelle economie avanzate.
Di certo, dipende in parte dai colli di bottiglia che si sono creati nelle catene globali di fornitura a causa dei lockdown dei due anni passati e dalle tensioni geopolitiche. Ma c’è chi alle cause aggiunge le conseguenze delle scelte dei governi sulla transizione energetica, le quali hanno l’effetto di avere abbassato gli investimenti nell’estrazione di idrocarburi e quindi di averne ridotto l’offerta. E molti altri ritengono che l’origine stia soprattutto nell’enorme massa di denaro creata dagli stimoli fiscali e monetari effettuati da governi e banche centrali prima e durante la pandemia.
Mentre la Fed americana e la Bank of England hanno già chiarito che nel 2022 aumenteranno più volte i tassi, la Bce si sta mostrando molto più restia a cambiare politica: il suo stimolo monetario rimane estremamente cospicuo. Ufficialmente, perché ritiene l’attuale aumento dei prezzi temporaneo, già sotto al 2% alla fine di quest’anno e all’1,8% nel 2023 e nel 2024. Qui, l’istituzione guidata da Christine Lagarde si prende un rischio. Sui mercati, la convinzione è che, in realtà, la Bce non sia aggressiva nel ridurre lo stimolo e ad alzare i tassi perché ci sono Paesi che hanno debiti pubblici alti: oltre all’Italia al 155% del Pil e la Grecia al 206%, anche la Spagna al 122%, la Francia sopra al 115% e il Portogallo al 127%. Un rialzo dei tassi aumenterebbe il costo del servizio del debito.
Questa posizione, però, è destinata a creare divergenze con altri Paesi dell’Eurozona, in particolare con la Germania che ha un debito di poco superiore al 70% e un’inflazione al 5,3%, ai massimi dal 1992. Pochi giorni fa, Joachim Nagel ha debuttato come presidente della Bundesbank sostenendo che probabilmente l’inflazione rimarrà più alta delle attese, che ciò fa perdere potere d’acquisto alle famiglie e si è chiesto: «la politica monetaria larga è ancora appropriata?». Un’altra tedesca, il membro del comitato esecutivo della Bce Isabel Schnabel, sostiene che la transizione verso l’energia pulita crea il rischio che gli aumenti dei prezzi rimangano elevati nel medio periodo. Il governo di Berlino potrebbe avere idee diverse dai banchieri centrali tedeschi, ma nella Bce il confronto sulle aspettative d’inflazione e sul costo del denaro sarà probabilmente accesso, nei prossimi mesi. E potrebbe creare incertezze in Paesi con debito pubblico elevato. Difficilmente vedremo tassi d’interesse ufficiali del 19% come nel 1981 in Italia. Ma oggi, con il debito pubblico così alto e con mercati finanziari aperti e sensibili, ogni battito d’ali può creare terremoti.