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 2022  gennaio 18 Martedì calendario

Ricordare Bianciardi

Luciano Bianciardi si divertiva molto a stilare elenchi. Narratore, uomo di editoria, traduttore (oltre cento titoli), critico e giornalista di cui si festeggiano i cento anni dalla nascita (1922-71), anticipò – come tante altre cose – una moda giornalistica poi in voga nei decenni successivi, e oggi persino stucchevole.
Comunque, ai tempi in cui firmava una rubrica di risposte ai lettori sul Guerin Sportivo, stagione 1970-71, poco prima di morire, lo scrittore maremmano – forte, testardo e dallo spirito indipendente come l’unica razza di cani da guardia in grado di affrontare un lupo – buttò lì alcune personalissime classifiche, che dicono molto, in fatto di estetica, e di etica, sulla personalità del compilatore. Esempi. Top five dei suoi registi preferiti: Fellini (che nel 1960 girò La dolce vita, mentre lui nel 1962 scrisse, ribaltando il concetto, La vita agra), Pasolini, Rossellini, Antonioni, Visconti (per quanto riguarda l’attore più significativo del Novecento, quello che meglio esprime il secolo per «gusto, problemi, alternative sociali e aspetti psicologici», non esitava invece a scegliere Totò, che la critica italiana snobbava, anteponendolo a Charlie Chaplin). Top five degli scrittori: Manzoni, Verga, Gadda, Henry Miller (che lui aveva tradotto) e Leopardi (considerato il miglior poeta moderno). Miglior pittore in assoluto: Pablo Picasso, con Guernica che batte la Gioconda (fra gli italiani invece il prediletto era Giovanni Fattori con i suoi paesaggi toscani).
A proposito di arte. I cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi, che non ne visse neppure cinquanta, devastato dall’alcol e dalla disillusione, si aprono proprio con un evento d’arte. A Grosseto, la sua città, al Polo culturale Le Clarisse, venerdì è stata inaugurata la mostra Furio Cavallini ovvero il Crazy Horse di Bianciardi (aperta fino al 13 febbraio; il catalogo, bellissimo, è di Pacini Editore). Curata da Elisa Favilli, storica dell’arte, e Fabio Canessa, critico letterario e cinematografico, la mostra racconta l’amicizia ventennale, dagli anni ’50 al 1970, tra il pittore di Piombino Furio Cavallini (1929-2012) e l’autore di Aprire il fuoco e l’intramontabile Il lavoro culturale: lungo le tre sale della mostra i dipinti e i disegni di Furio Cavallini, ri-tradotto da Bianciardi Crazy Horse, così come aveva ribattezzato Henry Miller «il buon vecchio Molinari Enrico di New York», sono esposti accanto a una serie di testi dello scrittore che svelano al lettore-visitatore sia lo sguardo critico con cui Bianciardi narrava il suo personale punto di vista sull’arte, sia la complicità sulla quale Cavallini e Bianciardi costruirono la loro amicizia. Passaggio cruciale di una lettera del 1968 (il carteggio è inedito): «Ogni tanto ci si rivede, ma siamo fra i pochi a non compiangere l’uno sulla spalla dell’altro gli anni passati. No, Furio mi chiede cosa ho scritto, io gli chiedo cosa ha dipinto. Fra noi due, sono queste le sole cose che contano. Si capisce, insieme al resto, alle persone che ci vogliono bene. Con quelle, e con il nostro mestieraccio, non si lesina mai». E ancora: «Ogni tanto mi compare per casa all’improvviso, qua fuor di Milano dove anch’io sono scappato, e parla, racconta, discute, legge, e appena gli capita tra le mani un pezzo di carta e qualcosa che lasci il segno, attacca a dipingere». Poco dopo, era tutto finito. Nel novembre del ’71 Bianciardi era già morto.
L’inizio invece – come altre avventure intellettuali di quell’Italia stretta fra il Miracolo e la miseria – fu al bar Jamaica, a Milano. «Ci si conobbe nell’autunno del 1954, a Milano, dalle parti di Brera, dentro un caffeuccio che poi è diventato alla moda, e anzi l’hanno anche abbellito»... Fu lì, fra le Antille letterarie e i ricordi della Maremma, ritrovo di artisti, fotografi e scrittori – Piero Manzoni, Mario Dondero, Ugo Mulas, Emilio Tadini... – che si incontrarono Bianciardi e Cavallini, scoprendosi provinciali della Toscana, uno di Grosseto e l’altro di Piombino, due squattrinati nell’Italia del boom e nella Milano della bohème, ma pieni di idee, energie e belle speranze, e che si industriano a lavorare nel mondo culturale, chi pittore, chi scrittore. I due diventano fratelli, compagni di strada (mentre il primo allarga la sua attività di scrittore collaborando con Nuovi Argomenti e l’Unità e firmando un contratto con la nuova casa editrice diretta da Giangiacomo Feltrinelli, il secondo si iscrive al corso di pittura dell’Accademia di Brera), lavorano, inventano, sentono insieme l’aria del tempo, e si aiutano a vicenda: Cavallini dà consigli e supporto a Bianciardi; Bianciardi scrive le introduzioni per i cataloghi delle mostre di Cavallini.
Ed ecco il senso della mostra. Lo spiega molto bene Fabio Canessa, anima con Elisa Favilli dell’evento toscano: ossia, ricordare non il Bianciardi già fin troppo celebrato, l’anarchico, il ribelle, il critico della sinistra da sinistra, il cattivo profeta; ma un altro Bianciardi, finora inesplorato. Ed ecco l’amante dell’arte, il curioso del contemporaneo (negli anni Sessanta già scrive degli impacchettamenti di Christo: «un gesto di appropriazione che ricoprendo l’oggetto in un involto chiuso... ce lo fa vedere altrimenti»), il critico che rivendica una pittura la quale cerchi sì la verità, ma non con un neorealistico copia-incolla della realtà, ma piuttosto come fanno Verga o Gadda, cercando un linguaggio nuovo per descrivere quella verità. È il linguaggio – o lo stile – che lui riconosce all’amico Cavallini nella pittura, o a Luchino Visconti nel cinema (il Visconti di Bellissima e di Senso, non quello decadente, che a Bianciardi non sarebbe piaciuto, di Ludwig o L’innocente), oppure a Fellini...
Insomma un modo di restituire la verità non in maniera didascalica, positivista. Ma in una maniera nuova. Che poi, è quello che volle fare Bianciardi stesso in letteratura, e forse persino nel giornalismo, inventando nuovi percorsi della cronaca e della critica. Non solo d’arte.