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 2022  gennaio 18 Martedì calendario

Claudio Sgura, il cattivo dell’opera

Due metri d’altezza, scarpe numero 51, capelli bruni raccolti a coda, un cenno di barba, giusto per mettere in rilievo il sorriso contagioso, Claudio Sgura, baritono dalla voce morbida e profonda, è uno che non passa inosservato. «Con questo fisico farai di sicuro carriera!» esclamò Pier Luigi Pizzi quando se lo trovò davanti per un Attila verdiano. Profezia avverata. Sgura oggi è tra i migliori baritoni italiani di scena sulle ribalte internazionali. La sua recente performance in Toscaal Covent Garden, ha colpito la critica inglese per la sua «fisicità immensa, capace di interpretare Scarpia come puro mostro». 
«Un ruolo ormai mio, ma conquistarlo non è stato facile – confessa il cantante, che lo riproporrà a febbraio al Comunale di Bologna —. Al primo incontro, una dozzina d’anni fa, quel satiro sadico l’ho subito odiato. Non ce la farò mai… Invece, dopo 150 volte, Scarpia è ormai un vecchio amico. Del resto, come baritono i cattivi mi toccano di diritto! Ma invece di giudicarli ora cerco di capire le loro ragioni». Un allenamento, scrutare dentro i cuori, conquistato nel corso di una vita che l’ha portato, prima ancora che nei teatri, a lavorare nelle corsie degli ospedali. «La mia era una famiglia povera, mamma casalinga, papà operaio alla Montedison, ortolano nel tempo libero. Al sabato mattina andava a vendere le sue verdure, al pomeriggio tornava sventolando una mazzetta di mille lire, soddisfatto di aver fatto un buon lavoro. Una lezione mai scordata». 
In una simile situazione la musica non era certo di casa. «In casa no ma in chiesa sì. Ad accorgersi della mia voce è stato don Cosimo, il mio parroco. Lui suonava l’organo senza saper leggere la musica, io cantavo a orecchio. Diventai famoso in paese, e Maria Mazzotta, soprano di Lecce, decise di darmi lezioni gratis. La mia prima maestra e seconda madre è stata lei». Quella vera gli muore presto, seguita a ruota dal padre. «A 20 anni ero solo. Mi diplomai infermiere, lavoravo nei reparti di psichiatria e rianimazione pediatrica. Non è stato facile, ma mi ha fatto capire quel che conta. Cantavo per i malati, la mia prima platea sono stati i malati, i piccoli, le famiglie disperate». 
Un bagaglio di umanità che si porta dietro anche quando il destino gli offre la svolta tanto attesa. «L’incontro con mia moglie, Floriana Longo, mezzosoprano. Dolce e caparbia, mi ha spinto a studiare musica davvero. Nel 2003 l’esordio al festival di Martina Franca, nel 2005 il primo ruolo, Escamillo in una Carmen a Cagliari. Quando ho visto il contratto non credevo ai miei occhi, per quattro recite l’equivalente di due anni di stipendio come infermiere. Mi è tornato in mente mio padre con la sua mazzetta, mi è venuto da piangere». 
Il debutto alla Scala arriva nel 2007, una Butterfly diretta da Chung. Ci tornerà per il Cyrano con Domingo, la Cavalleria con Harding, La fanciulla del West con Chailly. «Quando affrontai la prima volta Fanciulla al Covent Garden chiesi a Tony Pappano di poter studiare con lui ogni giorno. Un mese di prove prezioso per la mia formazione di cantante». Il 2022 gli porta due nuovi titoli: «A marzo Adriana Lecouvreur, ad aprile Manon Lescaut». La musica cura e lui non smette di curare gli altri. «Amo gli animali, lavoro come volontario in un’associazione pro randagi. L’opera è tanto, ma prima di tutto viene la vita».