Corriere della Sera, 18 gennaio 2022
Monumenti sotto tiro (un saggio di Germano Maifreda)
Il quadro che Jacques-Louis David dipinse in onore del marchese nonché deputato della Convenzione rivoluzionaria Michel-Louis Lepeletier e la cerimonia – curata nella scenografia dallo stesso David – con cui Parigi lo onorò dopo la sua uccisione, furono a loro modo «geniali», scrive Germano Maifreda nello straordinario Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture che esce dopodomani da Feltrinelli. Lepeletier aveva meno di trentatré anni allorché si pronunciò per la messa a morte di Luigi XVI; la sera precedente al giorno in cui il sovrano sarebbe stato ghigliottinato, fu ucciso da una guardia del corpo del re con un micidiale colpo di sciabola, mentre entrava nel ristorante di Février al Palais-Royal (20 gennaio 1793). La Rivoluzione lo considerò un martire. Il suo cadavere, su idea di David, fu esposto, nudo fin sotto la cintola, nell’odierna Place Vendome, sul piedistallo vuoto su cui fino a qualche tempo prima si ergeva una statua del monarca. La sua testa fu cinta da una «corona civica». Poi, dopo che i deputati al cospetto di quel corpo senza vita ebbero giurato di impegnarsi per la salvezza della patria, la salma del nobile rivoluzionario, «posta su un letto con le ferite in mostra», fu trasportata a spalla in processione al Pantheon. I vestiti di Lepeletier, «appesi a una picca adorna di rami di cipressi e alloro», seguivano il feretro.
David allestì una cerimonia simile nel luglio dello stesso 1793 in occasione dell’assassinio di Jean-Paul Marat. Un allestimento su cui si è sapientemente soffermato lo storico americano Louis Reichenthal Gottschalk in L’amico del popolo. Vita del rivoluzionario Marat (Res Gestae). La vasca in rame in cui il deputato giacobino era immerso al momento in cui era stato ucciso da Charlotte Corday fu collocata su un altare, mentre il cadavere fu esposto a petto scoperto con la ferita in evidenza. Il cuore di Marat fu asportato, imbalsamato e posto in un’urna di pietra che venne appesa nella sala del club dei cordiglieri. Il pittore anche in questa occasione, la morte di Marat, dipinse un quadro. I due celebri dipinti restarono esposti fino al «termidoro» del 1794, allorché dopo il colpo di Stato furono rimossi e andarono perduti. Ma mentre quello di Marat fu ritrovato ed è oggi al museo delle belle arti di Bruxelles, di quello di Lepeletier si sono perse le tracce. Lo conosciamo per un disegno che ne fece un allievo di David, Anatole Desvosge. Sembra che ai tempi della restaurazione sia stato acquistato da una figlia del nobile. La quale, però, lo tenne nascosto perché non voleva che, mostrandolo ai frequentatori della sua casa, in qualche modo venisse loro ricordato quel voto paterno a favore dell’uccisione di Luigi XVI. Talché se il primo è un quadro ancor oggi assai conosciuto, del secondo si è (quasi) persa memoria.
La verità è che nessuna immagine che sia giunta a noi dal passato è «neutra». Perché – si domanda Maifreda – alcune ci sono state tramandate e altre invece sono state contestate, proibite, eliminate? Come mai alcune sono state glorificate e altre, invece, sono state cancellate, censurate? Come i discorsi, «anche le forme che ci sono state consegnate dal passato e che possiamo decidere se preservare nel presente», scrive Maifreda, «non sono né innocenti, né neutrali». Ognuna di esse è «emersa da un intreccio di rapporti di potere che non procedono solo dall’alto verso il basso della piramide, ma tracciano percorsi variegati, talora minuti, situati nel tempo e nello spazio». Appare evidente che si sta parlando, almeno in sottofondo, della cancel culture e dei suoi «presunti abusi» (così Maifreda). Vale a dire delle forme di protesta consistenti nell’abbattimento, danneggiamento (o rimozione) di statue e altre forme visuali ereditate dal passato, collocate – «non è un dettaglio secondario», avverte l’autore – in spazi pubblici.
Il libro prende garbatamente in giro la maggior parte dei critici di queste azioni perché – è opinione dello studioso – non sono andati «molto oltre una generica denuncia di lesa maestà storica», e si sono così sottratti al dovere di «aprire spazi di discussione». In che senso? I commentatori di cui sopra avrebbero «rinunciato a indagare il significato profondo di quelle immagini» e «di quelle collocazioni nello spazio pubblico» (entrambe «tutt’altro che neutrali e innocenti»). In altre parole, si sarebbero sottratti al dovere di interrogarsi sulla capacità o meno di specifiche immagini, poste in specifici luoghi, «di rappresentare gruppi che in passato non avevano voce» e che ora «guadagnano ora centralità sociale». Avrebbero rifiutato di mettere in luce «il divario oramai abissale esistente tra manufatti visuali creati e selezionati sulla base di rapporti di forza vigenti in passato e un futuro inesorabilmente pluriculturale».
Quanto alla tesi che ogni immagine abbia il valore di «testimonianza storica» e che perciò tutto quel che ci è stato tramandato «meriti indifferentemente di essere preservato, esibito, ammirato», questo modo di vedere le cose, secondo lo storico, si rivela – anzi, «si è già rivelato» – «pericolosamente insufficiente». Nessuna traccia del passato è giunta a noi «pura, intatta, primitiva». Né il quadro di David dedicato a Lepeletier (che, anzi, è andato perduto e probabilmente fu distrutto). E neppure quello sull’uccisione di Marat, che è giunto a noi attraverso peripezie forse più affascinanti dello stesso dipinto. Ogni immagine, come oggetto storico, è stata più volte «vagliata e filtrata, promossa o bocciata, anche solo per l’autocontrollo e l’autocensura dei suoi autori». I cancellati di ieri, scrive Maifreda, potranno certo diventare «i cancellatori di domani». Coloro che oggi temono la propria cancellazione devono, a loro volta, «ammettere di aver cancellato».
Tutti i totalitarismi, gli assolutismi e gli autoritarismi, ad ogni latitudine, «reinventano tradizioni inesistenti per legittimare sé stessi agli occhi delle popolazioni che intendono sottomettere». Le quali a loro volta «accettano quelle pretese verità sul passato per paura, servilismo, qualunquismo, ignoranza». I dittatori censurano le immagini altrui e ne erigono di proprie, che «saranno regolarmente abbattute in occasione della loro caduta». Il processo ciclico di distruzione delle effigi di «tiranni già amati, temuti o venerati» ci appare in molti casi del tutto naturale e condivisibile «perché tacitamente ne condividiamo i presupposti». A conferma del fatto che «ogni raffigurazione è un atto politico come politico è ogni atto di cancellazione».
In questa storia di pubbliche immagini alle quali fu attribuito un evidente significato politico, un posto particolare merita la statua di Giordano Bruno. Giordano Bruno, bruciato vivo nel febbraio del 1600 su sentenza del tribunale dell’Inquisizione, venne celebrato a Roma il 9 giugno del 1889 con l’inaugurazione di un monumento bronzeo a lui dedicato. Monumento realizzato dallo scultore romano Ettore Ferrari, deputato di fede repubblicana, già carbonaro nonché difensore, nel 1849, della Repubblica romana. Ferrari sarebbe diventato gran maestro dell’obbedienza massonica Grande Oriente d’Italia. La vicenda di quelle giornate di giugno del 1889 è ben raccontata da Massimo Bucciantini in Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto (Einaudi). Quel giorno giunsero alla stazione Termini moltissimi militanti dell’Italia anticlericale. In quelle stesse ore – riferisce Bucciantini – alcuni cardinali lasciarono Roma assieme a gruppi di devoti (il segretario di Stato, cardinale Mariano Rampolla, facilitò l’esodo facendo omaggio di biglietti ferroviari a frati, suore, sacerdoti, intere famiglie). Anche la regina Margherita si spostò a Napoli. Suo marito, il re Umberto I, restò invece a Roma così come il capo del governo, Francesco Crispi, che aveva fortemente voluto quella cerimonia.
Il Papa dell’epoca, Leone XIII, sospese i ricevimenti, consegnò in caserma gendarmi e guardie svizzere; poi si raccolse in preghiera con i suoi più stretti collaboratori e con gli ambasciatori di Francia, Belgio, Austria e Portogallo, turbato – secondo la Segreteria di Stato – dall’arrivo a Roma di quelle «numerose falangi di miscredenti che sotto il nero vessillo di Satana» si davano «convegno nel centro e cuore del Cristianesimo». Il 6 giugno l’«Osservatore Romano» aveva definito Giordano Bruno «il più laido degli apostati e nemico acerrimo della fede cristiana». «Civiltà cattolica» scrisse di Campo de’ Fiori come di un «Campo maledetto». Il 10 giugno, il Pontefice avrebbe convocato una cerimonia di pubblica benedizione (in realtà una «contromanifestazione») in piazza San Pietro promettendo ai partecipanti speciali indulgenze.
Per contro, ricostruisce Bucciantini, numerose lettere e telegrammi di supporto giunsero alla sede del Comitato promotore della manifestazione da Zurigo, Praga, Berlino, Uppsala, Jena, Lipsia, Stoccolma. Scrissero «gruppi studenteschi, associazioni e logge massoniche, consigli, fra cui quello di Parigi». Il consiglio municipale della capitale francese aveva approvato con quarantasette voti contro sette, un ordine del giorno di piena adesione alla manifestazione in nome del «libero pensiero» e contro «lo spirito di intolleranza», esprimendo «fraterna simpatia alla democrazia italiana». Il discorso commemorativo fu tenuto dal filosofo e deputato Giovanni Bovio.
Quel 9 giugno 1889 e nei giorni successivi moltissime altre manifestazioni si tennero in ogni parte d’Italia e del Canton Ticino: da Lugano a Catania, da Vicenza a Sassari, da Torino a Gallipoli, da Venezia a Cosenza, a Caltanissetta. A Livorno, racconta Maifreda, «un corteo di oltre duemila persone accolse il ritorno da Roma dei manifestanti». Da un’interrogazione parlamentare si apprende che dal corteo si levarono grida ostili al re, inneggianti al socialismo e all’anarchia. Giornali dell’intero mondo anglosassone dedicarono ampio spazio al successo di quelle manifestazioni: dal «New York Times» a quotidiani australiani e neozelandesi.
Ecco cosa si cela dietro un monumento che Émile Zola, qualche anno dopo quelle manifestazioni del giugno 1889, avrebbe definito come la raffigurazione di una «protesta contro la Chiesa». Il fatto che oggi «molti fra i turisti e i passanti che affollano la piazza – come tanti altri luoghi che nel mondo accolgono monumenti a donne e uomini del passato – non siano più interessati a decifrare quel messaggio», osserva Maifreda, «non significa che esso non sia mai stato o non continui ad essere lanciato». Né implica «che quel messaggio non abbia più importanza o che esso non possa, all’occorrenza, essere riattivato da operazioni culturali promosse dall’uno o dall’altro fronte della contesa». Le «smemoratezze del presente» non comportano, a loro volta, che il significato di questo o quel monumento non possa ora essere da qualcuno percepito come positivo e da altri come offensivo.
Ma non sarebbe sufficiente lasciarlo lì dove è? Non basterebbe vietarne la «cancellazione»? Il Codice penale napoleonico introdotto nel 1810 nel Regno d’Italia e nel Regno di Napoli sotto il titolo «Guasti di monumenti» prevedeva che chiunque avesse «distrutto, abbattuto, mutilato o guastato» statue e altri oggetti «destinati all’utilità o all’ornamento pubblico» ed «innalzati dalla pubblica autorità, o colla di lei autorizzazione», sarebbe stato «punito con detenzione da un mese a due anni». E con una multa alquanto salata. Parole che, a leggerle in controluce, incitavano, all’opposto, a danneggiare o distruggere i monumenti eretti a simboli del passato regime. Scrive Maifreda: «La storia della creazione e quella della cancellazione sono necessariamente intersecate».
Significa che ogni effigie destinata alla celebrazione pubblica di qualche personalità o evento storico è destinata, prima o poi, ad essere distrutta. Per la sua stessa natura.