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 2022  gennaio 18 Martedì calendario

Biografia di Vittoria Puccini raccontata da lei stessa

Essendo figlia di un professore ordinario di diritto pubblico, si era appena iscritta a Giurisprudenza e lavorava per un’agenzia di moda, quando le viene proposto di fare il provino per un film. «Effettivamente, dopo il liceo classico, la mia strada sembrava tracciata nella direzione dello studio giuridico, eppure la mia passione era altrove – spiega l’attrice Vittoria Puccini —. Il mio lavoro nella moda mi serviva solo per raggiungere un’indipendenza economica, non volevo dipendere dai miei. Ma fu proprio l’agenzia a propormi di tentare il provino per il film Tutto l’amore che c’è diretto da Sergio Rubini. Accettai di buon grado e, direi, con grande curiosità la proposta: sostenni varie prove, recitando le scene che mi venivano indicate dal regista e alla fine vengo scelta. Prese il via un’esperienza che non sapevo dove mi avrebbe portato, però il primo giorno sul set mi sono subito sentita a mio agio e, nonostante la mia timidezza, ho capito di trovarmi nel posto giusto. Perché lì non ero Vittoria, avevo la protezione del personaggio che dovevo interpretare e in cui mi nascondevo. In altri termini potevo esprimere sentimenti ed emozioni senza espormi in prima persona, ma attraverso un ruolo che dovevo incarnare. Quella prima esperienza mi ha aperto un canale importante per dare sfogo alla mia emotività, che facevo fatica a portare all’esterno. È stata una scoperta, mi sono trasferita a Roma ed è partita la mia avventura». 
Dunque la recitazione è stata in qualche modo un mezzo per combattere la sua timidezza, senza il bisogno di ricorrere al lettino dello psicoanalista? 
«Una specie di training autogeno. Sin da bambina giocavo con la fantasia: prima di addormentarmi inventavo storie di principesse rapite, che poi riuscivano a fuggire... e quando viaggiavo in macchina, guardavo fuori dal finestrino, silenziosa, costruendo personaggi e intrighi bizzarri. I miei genitori mi chiedevano a cosa stessi pensando, ma non glielo dicevo... ero riservata, mai esibizionista, mai interessata a mostrare i miei sentimenti. A volte, stare con i piedi piantati a terra nella realtà è faticoso e riuscire a uscirne, a staccare, a crearsi una propria realtà, allenando la fantasia, rende libera la tua mente dagli impedimenti sociali, dalle aspettative che gli altri nutrono nei tuoi confronti. Tuttavia sono sempre molto curiosa e aperta agli stimoli esterni che mi aiutavano, e mi aiutano, a conoscere il mondo che mi circondava, a vivere le mie esperienze in maniera energica. Pronta all’osservazione e all’ascolto: preferivo e tuttora preferisco ascoltare piuttosto che parlare di me ed essere ascoltata. Per gli altri sono un’ottima confidente, invece per me è una forma di pudore che protegge il mio privato, senza mettere tutto in piazza. Ma comunque non sono un tipo solitario, ho sempre avuto tanti amici». 
Quando ha abbandonato gli studi, suo padre rimase male? Come reagì? 
«Accettò la mia scelta, ma fu categorico dicendo: mi fido di te ma, se entro due anni non succede niente, ricominci a studiare. E fece bene a dirmelo, era il modo giusto per farmi capire che non dovevo galleggiare in un limbo. I miei genitori certamente erano un po’ preoccupati, perché quello del cinema era un mondo che non conoscevano, comunque si sono fidati della mia determinazione, mi hanno dato forza e fiducia. All’uscita del mio primo film, organizzarono per me una bella sorpresa». 
Quale? 
«In quel periodo non ero a Firenze, dove sono nata e dove vivevo con la mia famiglia. Ma mia madre orchestrò una grande cena a casa, post proiezione, con tanti amici, parenti, conoscenti... All’ingresso di casa aveva inoltre posizionato un mega foglio, dove ognuno degli invitati poteva scrivere, poi, un suo pensiero, una sua valutazione non solo sul film, ma sul fatto che iniziavo il mio viaggio sul grande schermo. Tutte le testimonianze erano rigorosamente firmate». 
Una sorta di pagelle? 
«Sì, in maniera divertente e affettuosa. Ma l’iniziativa ancora più notevole, venne organizzata quando ero protagonista in tv con Elisa di Rivombrosa: mamma invitava tutti a vedere la puntata, facendo dei veri gruppi d’ascolto, messi in giro per casa. In ogni stanza, dove c’era un televisore, si riuniva un po’ di gente, persino in cucina e in corridoio. E una volta feci io una sorpresa a loro, perché quella sera, mentre ero sul piccolo schermo, comparvi all’improvviso a tutti in carne e ossa... fu un’ovazione generale». 
La celebre Elisa è stata in effetti la sua svolta mediatica. 
«Non posso negarlo. Sono trascorsi vent’anni da quel personaggio, sono orgogliosa di averlo interpretato e non mi sembra giusto, adesso, affermare che mi impegno in altri ruoli per allontanarmene. Noi attori dobbiamo ovviamente misurarci sempre con nuovi personaggi e non dobbiamo pensare a diversificarci dal passato, semmai dobbiamo identificarci con il passato e andare oltre». 
Lei è stata protagonista anche in palcoscenico, ne «La gatta sul tetto che scotta», testo impegnativo. Come mai non ha mai avvertito la necessità di frequentare una scuola di recitazione? 
«In teatro le difficoltà tecniche sono decisamente maggiori, è stata un’esperienza straordinaria. Il motivo per cui non ho fatto scuole, è perché ho iniziato la mia carriera per caso e molto giovane mi sono ritrovata subito immersa nel lavoro: le scuole sono importanti, ma le devi fare subito altrimenti, dopo una certa età, diventa troppo tardi. Se tornassi indietro, le frequenterei e oggi consiglierei a un giovane attore di frequentarle, perché si acquisisce una struttura, si conquistano degli strumenti fondamentali, arrivi in scena con maggiore sicurezza, con le spalle larghe e più forti, mentre io ho dovuto imparare il mestiere sul campo... Naturalmente, di tanto in tanto, ho seguito degli stage con dei professionisti per imparare a usare la voce, il corpo, la gestualità... ma non una scuola vera e propria e, infatti, ho avuto maggiori problemi tecnici, rispetto ai colleghi che si erano formati in modo completo con veri maestri. Aggiungo, però, che ci sono cose che la scuola non ti insegna». 
Per esempio? 
«Come gestire le proprie capacità, incanalandole in una seria, severa, rigida disciplina: ci vuole autoregolamentazione per stare 12-13 ore al giorno sul set, poi studiare le scene successive e, quando torni davanti alla cinepresa, devi essere pronta, mai in affanno. Un allenamento continuo, che costa sacrificio, che non mi ha fatto vivere la giovinezza. Mentre io da ragazza impersonavo Elisa, le mie amiche si godevano una vita spensierata, uscivano la sera, si divertivano. Io la sera tornavo a casa dal set, mi infilavo sotto la doccia, mangiavo qualcosa e andavo a dormire. Sentivo la responsabilità di ricoprire un ruolo da protagonista e, in quanto tale, avevo pure il compito di trascinare gli altri interpreti con una energia contagiosa, affinché tutti dessero il meglio sul campo». 
Sul campo, qual è stato il suo primo maestro? 
«Ovviamente Sergio Rubini, un punto di riferimento importante, mi ha insegnato molto. In particolare, ricordo una sua raccomandazione che si riferiva al mio aspetto etereo, troppo pulito. E allora mi ripeteva: devi sporcarti, devi avere il coraggio di rompere qualcosa dentro di te... Poi, ho avuto altri punti di riferimento: una passione smisurata per Mariangela Melato e per Meryl Streep, non per copiarle, solo ammirarle». 
Il personaggio più difficile da incarnare? 
«Più di uno, ma certamente impersonare Oriana Fallaci è stata un’esperienza unica. Innanzitutto, ero in tutte le scene del copione, poi abbiamo girato la miniserie televisiva nei posti più incredibili: Tunisia, Grecia, Vietnam... una lavorazione complicata in condizioni non sempre ottimali. Inoltre tante ore di trucco faticoso, quando è stato necessario l’invecchiamento... Ricordo quando girammo una scena in una località tunisina: nel copione doveva sembrare estate, invece era il mese di novembre e insieme a Vinicio Marchioni, che impersonava Panagulis, abbiamo dovuto immergerci in un mare ghiacciato... una autentica sfida climatica». 
L’Oriana, una fiorentina come lei... 
«Sì, una donna complessa, amata e odiata. Grande provocatrice, una Cassandra che ha previsto tanti fatti, come il terrorismo islamico, che poi si sono verificati. La definirei una Forrest Gump al femminile, solo che il personaggio impersonato da Tom Hanks si trovava per caso in certe situazioni, mentre l’Oriana se le andava a cercare, voleva esserci per raccontare quello che succedeva con forte spirito di avventura». 
Adesso nella fiction «Non mi lasciare», in onda fino al 31 gennaio su Rai1, è Elena Zonin, una poliziotta specializzata in crimini informatici e, soprattutto, in reati contro l’infanzia. 
«Una storia ambientata in una Venezia segreta, città ricca di mistero che, per la prima volta, diventa la location di un thriller, dove si affronta una tematica molto importante, che riguarda pericoli terribili che corrono i bambini, per esempio con la pedopornografia online: il web è un macrocosmo complesso e loro non hanno gli strumenti per comprenderne i gravi rischi. Anche i genitori vanno messi in guardia, devono controllare con molta attenzione le frequentazioni virtuali dei propri figli». 
Lei è la mamma di una quindicenne, Elena... 
«La seguo su Instagram e lei ne è molto contenta». 
È contenta anche quando vede la mamma protagonista sul piccolo o sul grande schermo? 

«Be’, il più bel complimento l’ho ricevuto recentemente proprio da lei. Dopo che è andata in onda la prima puntata di Non mi lasciare, la mattina seguente a colazione mi guardava senza proferire parola, finché si è palesata, dicendo: mamma mi sei piaciuta e seguirò le puntate successive. Non era tanto scontato... una figlia adolescente i complimenti non te li regala per farti piacere...».