Professore, perché ci si innamora dei dinosauri? La sua è la prima generazione che si è così appassionata alla loro storia.
«Credo che con Spielberg i dinosauri abbiano raggiunto la popolarità, diventando affascinanti per tantissimi ragazzi. Prima di allora c’erano libri anche divulgativi ma non così diffusi: con Jurassic Park la questione è completamente cambiata. Da un punto di vista comunicativo, molto si deve a quel film».
Nel suo libro traspare quanto lei si senta fortunato nell’aver realizzato il suo sogno di bambino: diventare un cacciatore di dinosauri.
« È così. Non siamo in tantissimi che riusciamo ad andare avanti con questo lavoro. Moltissime persone adesso mi scrivono che vorrebbero fare questo mestiere strano, ma la cosa non si realizza. Di sicuro questo non è un lavoro che ti capita di fare ma quello che vuoi proprio fare. La mia fortuna è che io non ho mai avuto un piano B, e quindi mi sono concentrato sul piano A».
Quale è stata finora la soddisfazione più grande?
«La fortuna più grande il trovare il dinosauro in cova nel deserto dei Gobi, avevo 25 anni. Il successo professionale maggiore è avvenuto sempre in Mongolia: la prima missione che ho potuto coordinare, il mio vero banco di prova, con al seguito quelli che erano stati i miei mentori quando ho iniziato a vent’anni, in Canada. Mi sono potuto sdebitare con loro, abbiamo lavorato insieme a un progetto comune».
Lei spiega che studiare i dinosauri ci può dire molto del presente e del futuro. Come scrive: «Noi umani ci stiamo fabbricando una catastrofe con le nostre stesse mani».
«Questa è la morale del libro. Noi paleontologi veniamo sempre indicati come ‘quelli che studiano i morti’. In realtà quello che noi cerchiamo di capire non è come sono morti, ma come sono sopravvissuti. Così come oggi noi viviamo in un mondo che sta subendo cambiamenti, gli animali del passato non si sono tutti estinti: vogliamo proprio comprendere come siano sopravvissuti di fronte ad asteroidi, riscaldamento globale, innalzamento dei mari, quale sia stato insomma il loro stratagemma».
C’è un lato del suo mestiere che non aveva messo in conto?
«Fare il paleontologo non è ‘prendo un aereo e vado a scavare’, magari lo fosse. Gli aspetti non previsti sono il 90% e non riguardano strettamente i dinosauri: la ricerca fondi, i permessi, i visti, tutta la burocrazia».
Lei è ancora in grado di stupirsi?
«C’è un’emozione che vorrei far provare a tutti: quando si scava e salta fuori la punta di un fossile di dinosauro».
C’è stata qualche delusione?
«Molte, perché nel 90% delle missioni non succede nulla, ci sono tanti fallimenti».
Cosa sogna di scoprire?
«Non sogno di trovare un fossile particolare, diciamo che mi piace cercarli in tanti posti diversi, soprattutto dove nessuno si è mai spinto. In questo momento sogno più che altro dei luoghi: la Groenlandia, l’Artico o l’Antartide, oppure tornare in Madagascar, dove ho fatto la mia tesi di laurea».
E cosa può dare l’Italia alla paleontologia?
«Ha dato tanto. Il problema è che qui non ci sono quei fossili spettacolari che si trovano altrove.
Ma a maggior ragione è bello che si parli di scoperte come quelle vicino Trieste. Un vero giacimento: scoperto grazie a paleontologi molto determinati. Vorrei continuare sulla loro scia».