La Stampa, 18 gennaio 2022
Il quadro censurato che ha spaccato Israele
Una bandiera nera per segnare la fine di una mostra, un traguardo a lutto per un progetto crollato dentro il Ramat Gan, museo appena fuori Tel Aviv, dedicato all’arte israeliana contemporanea.
La censura ha aperto una crepa che ha demolito «The Institution», esposizione aperta il 23 dicembre per raccontare i legami tra l’arte e i luoghi in cui si esprime e appena chiusa definitivamente, dopo tre settimane da incubo. Il giorno dell’inaugurazione è arrivata la scomunica del sindaco contrario, anzi scandalizzato, dall’opera «Jerusalem» di David Reeb. Il quadro, datato 1997, è diviso in quattro rettangoli: in due c’è un uomo ultra ortodosso che prega al muro del pianto e negli altri due delle scritte in ebraico: «Gerusalemme d’oro», «Gerusalemme di merda». L’artista ha spiegato più volte che non si tratta di un giudizio o di un insulto, ma dei sentimenti controversi che scatena la città santa, «del bisogno di riflettere su quanto nel corso del tempo la religione sia stata strumentalizzata». Da lì, come sempre con l’arte, valgono plurime interpretazioni, ma la politica israeliana non ha alcuna intenzione di alimentare il dibattito e vuole solo eliminare l’immagine controversa, come minimo toglierla da una mostra molto attesa per la riapertura trionfale di un museo considerato, come da titolo, una istituzione. Volevano capire se un’opera è più incisiva dentro stanze dedicate o fuori, in un contesto vivo, in un ambiente che non sia asettico. Hanno realizzato che pure dentro un museo istituzionale è assai difficile farla respirare, proteggerla, darle spazio e libertà. Se era un esperimento, ha dato delle risposte.
Il museo ha cercato di prendere tempo e ha spostato «Jerusalem» per placare il sindaco e pure diversi investitori, ma gli altri artisti hanno iniziato a coprire i lavori. Lenzuola scure sopra le tele appese e scatoloni enormi a nascondere le sculture, un pezzo dopo l’altro sottratto alla vista. Ogni ora nuove defezioni fino a che la censura è diventata un caso e l’ufficio del sindaco ha richiamato il museo: niente più teli neri. Censura sì, ma bianca, lontano dagli occhi e dalla polemica che invece, ovvio, ha fatto il suo corso e ci ha messo poco a diffondersi.
Diverse gallerie israeliane hanno esposto drappi neri e postato la foto sui social. Il quadro che rischiava di diventare un caso nazionale si è trasformato in pasticcio globale e il museo ha ceduto. Giù le serrande, basta.
A definire la disfatta un laconico messaggio appeso alla porta e pubblicato sul sito ufficiale: «Purtroppo non siamo riusciti a trovare una mediazione tra la richiesta degli artisti e le esigenze del museo», dove esigenze sta per elegante e vago sinonimo di fondi, in gran parte municipali. Non possono avere l’amministrazione contro per stare aperti e possono solo chiudere senza più artisti. «The Institution» è andata molto oltre le ambizioni, è diventata un gioco di potere, un argomento di dibattito pubblico, un fenomeno mediatico e un fallimento. La controversia è finita in un tribunale che ha sancito l’evidenza: «Le cariche cittadine non possono decidere il contenuto di una mostra, però tocca al museo stabilire che cosa ha senso esporre». Non c’è altro da decidere. La direzione del museo ha proposto di mettere «Jerusalem» in luogo riparato, con un’avvertenza da leggere prima di arrivarci davanti. Opzione respinta da entrambe le parti: dal comune e dall’autore.
Reeb, che ha 69 anni, è noto come «l’artista dei Territori», questo non è il suo primo scontro con la politica. Nel 1983 il Pavillion Helena Rubinstein ha ricevuto pressioni per togliere un lavoro che mescolava i colori delle bandiere di Israele e della Palestina. Meno clamore, il fastidio è rimasto sotto traccia in anni in cui era impensabile evocare il dialogo tra due Paesi che non si riconoscono. «Jerusalem of gold», una delle due scritte sul quadro, è anche una canzone, uscita dopo la guerra dei Sei giorni e rimasta in circolo come eco di una conquista. Per Reeb il quadro parla proprio di quanto sia semplice attribuire significati opposti alla stesso concetto o alla stessa immagine: «Mi si accusa di razzismo, ma gli ortodossi sono in maggioranza qui, non sono ghettizzati, lo sono gli stranieri e palestinesi». Le tensioni si agitano nel quadro che non ha un’unica interpretazione «io mostro solo la realtà in cui viviamo. Il problema non è “Jerusalem” e non sono le letture che la gente può farci, è la censura».
Per evitare accuse il sindaco Shama-Hacohen, ambasciatore all’Unesco, ha detto che numerosi visitatori del museo gli hanno scritto di essere «scappati terrorizzati», lui si sarebbe limitato a rispettare «la sensibilità popolare», ma il nero ha coperto tutto e quello tinge, resta. Via la polemica, ma via anche gli artisti che pur di non stare al gioco si sono portati via il pallone e l’istituzione, «The Institution» ora non ha più voce.