La Stampa, 18 gennaio 2022
L’epopea della Brigata ebraica
Vennero a combattere in Italia. Erano ebrei e arrivavano dalla Palestina governata dagli inglesi. Con loro, nella VIII Armata britannica, c’erano reparti di canadesi, indiani, gurkha del Nepal, Maori della Nuova Zelanda che si aggiungevano a polacchi, brasiliani, marocchini, che affollavano l’esercito internazionale schierato dagli alleati. Vennero e vinsero, ci aiutarono a battere i nazisti e, insieme ai partigiani, sconfissero il fascismo di Salò.
La Brigata ebraica (Jewish Brigade Infantry Group), forte di circa 5 mila uomini, fu schierata sul fronte, in Romagna, nella zona a nord di Ravenna, affiancata da reparti polacchi e italiani (i partigiani garibaldini, agli ordini di Arrigo Boldrini, “Bulow”, e i soldati dei Gruppi di Combattimento Folgore e Cremona dell’esercito appena ricostruito dalle macerie dell’8 settembre 1943), contribuendo allo sfondamento della linea gotica, nell’aprile del 1945, e alla liberazione di tutta l’Italia settentrionale. Fu l’unica unità combattente che vide tra le sue fila ebrei di Palestina, l’unica a essere addestrata e armata per affrontare nazisti e fascisti e lo fece in Italia e solo in Italia. Le sue gesta sono ora raccontate in un eccellente libro di Gianluca Fantoni, Storia della Brigata ebraica (Einaudi), che ripercorre le vicende che ne segnarono la partecipazione prima alla guerra (la Brigata operò in Italia dal novembre 1944 al luglio 1945) poi, dall’agosto 1945 al giugno 1946, all’opera di pacificazione nell’Europa sconvolta dal trauma bellico.
Dopo la fine della guerra, la formazione fu dislocata inizialmente a Tarvisio, in Friuli Venezia Giulia, poi mandata in Belgio, attraversando la Germania sconfitta in un’esperienza dal forte impatto emotivo che fece registrare anche il primo contatto diretto con la tragedia della Shoah e l’incontro con i sopravvissuti.
I combattimenti erano finiti ma c’era ancora molto da fare: vendicarsi degli aguzzini, per esempio, con una scelta che portò all’uccisione di circa 1500 ex nazisti (anche se si tratta di una cifra molto incerta); aiutare i profughi che arrivavano dall’Europa dell’Est, molti dei quali intendevano trasferirsi in Palestina; reperire armi per gli indipendentisti dell’Haganah che in patria combattevano sia gli arabi che gli inglesi.
Erano soldati provenienti da 54 paesi diversi (sic!), di tutte le età, professioni ed estrazione sociale, artisti, scienziati, agricoltori, medici, ingegneri: di alcuni il libro di Fantoni racconta un percorso esistenziale sospeso tra la dimessa normalità della vita quotidiana, prima e dopo l’arruolamento, e la potenza simbolica assunta dalla loro esperienza nel momento in cui fu scelta dallo Stato di Israele come parte integrante del proprio mito di fondazione, affiancata a quella dei resistenti del ghetto di Varsavia e degli altri ebrei che impugnarono le armi contro il nazismo.
E questo ci riporta al nostro presente, quando quel mito è stato scaraventato nella grande arena dell’uso pubblico della storia, prima di tutto in Israele. Fino al processo contro Eichmann (1961), la memoria della Brigata ebraica fu utilizzata soprattutto per marcare la differenza tra gli ebrei della Palestina e gli altri, quelli della diaspora: i primi avevano saputo «combattere e morire bene», gli altri erano andati al macello quasi con rassegnazione. Il passo successivo fu l’inevitabile annessione di quella memoria ai miti del sionismo, raccontando ancora la diaspora come una storia di «infelicità e sradicamento» alla quale porre fine abbracciando il programma sionista e trasferendosi in Palestina. Da ultimo, il nesso strettissimo tra Brigata ebraica e sionismo è stato ancora ribadito nella polemica esplosa contro i new historians israeliani che, utilizzando ricerche e documenti inediti, avevano messo in discussione molte delle «tradizioni inventate» per legittimare lo Stato di Israele come l’unico, inevitabile sbocco dell’ebraismo.
Gran parte di questa «memoria inquieta» è transitata anche nel dibattitto che si è scatenato in Italia a partire dalla presenza della bandiera israeliana alle manifestazioni del 25 aprile. Ammettere nei cortei quella bandiera, che oggi rappresenta uno Stato e che allora fu l’insegna della Brigata, potrebbe essere una scelta da estendere anche agli altri paesi che lottarono per la nostra libertà, rendendo così meno nazionale e più internazionale quella festa. Pure il significato simbolico della stella di David non può essere ignorato.
La Shoah fu un evento unico, irripetibile, straordinario. Dopo la Seconda guerra mondiale l’antifascismo è vissuto nel segno di «mai più quell’orrore». Accettare quella bandiera vuol dire, allora, renderne esplicito il significato più profondo. Dovrebbe essere scontato ma non è così. Troppi nodi si sono aggrovigliati su quella memoria, a partire dagli strascichi del conflitto medio orientale e dalla divisione tra filopalestinesi e filoisraeliani, per non parlare del modo in cui la destra italiana ha cercato di rifarsi una verginità proprio attraverso il pieno consenso alla politica dello stato di Israele.
Contro queste esplicite strumentalizzazioni, Fantoni propone un antidoto: più storia, meno memoria, indicando nella ricerca la possibilità di sfatare miti identitari, raffreddare le passioni, trovare un linguaggio comune con cui confrontarsi ricordandoci che dei 5 mila soldati della Brigata ebraica, mille non erano ebrei e che senza il loro arruolamento la Brigata non avrebbe mai raggiunto l’organico indispensabile per essere operativa. Non a caso, il suo libro si conclude citando un’esperienza cancellata dalla memoria, quella dei soldati del 51° Middle east Commando, una unità mista di arabi ed ebrei, tutti provenienti dalla Palestina, che combatterono in armi i fascisti italiani in Africa Orientale, già nel 1940, molto prima che la Brigata ebraica venisse schierata.