Il Messaggero, 17 gennaio 2022
Intervista a Sven Goran Eriksson
Dai boschi di Torsby alla gloria conquistata in ogni angolo del pianeta. Sven-Goran Eriksson, l’allenatore-profeta dell’ultimo scudetto biancoceleste, è tornato ormai a passeggiare nella sua casa in Svezia. Ma un gran pezzo del suo cuore è rimasto in Italia, soprattutto a Roma: «Conobbi la capitale una domenica di gennaio del 1983. Ero venuto a studiare Liedholm, futuro avversaria del mio Benfica nei quarti di Uefa. Durante il tragitto in taxi, dall’aeroporto al centro, me ne innamorai. Così, di primo acchito. E quando entrai allo stadio Olimpico mi dissi che quello era un posto in cui avrei dovuto lavorare almeno una volta nella vita». L’opportunità arriva l’anno successivo, offerta dal presidente Dino Viola, ma ironia del destino Sven farà le fortune oltre 10 anni dopo – datata 1997, la chiamata di Cragnotti – dell’altra sponda.
Innanzitutto, come sta?
«Come tutti, in questo brutto momento di pandemia. La situazione qui in Svezia non è buona. Io sto bene fisicamente, mi tengo in allenamento con un po’ di corsa, i pesi. Gioco a padel e leggo molto. Purtroppo mi manca viaggiare».
Altrimenti l’avremmo rivista a Roma. Ha dato una sbirciata alla Lazio davanti alla tv?
«Devo dire la verità, la vedevo sempre quando c’era Simone...».
Non la incuriosisce il successore Sarri?
«Si, ne avevo sentito parlare tanto, ma ora mi aspettavo un altro gioco».
In che senso? Sabato ha vinto contro la Salernitana, ma non era forse un test probante per capire i passi avanti negli schemi del nuovo allenatore?
«Magari deve ancora carburare, ma ho grossi dubbi sul 4-3-3. Ti puoi permettere di andare avanti con un modulo, se hai i calciatori adatti e a disposizione. Alla fine si parla sempre di tattica, ma contano i giocatori e bisogna farli giocare nella loro posizione più congeniale. Magari puoi adattarli in un ruolo per una partita, ma non sempre. Nel calcio bisogna seguire la logica e non ha senso schierare un elemento in una posizione in cui non riesce a esprimersi al 100%. Peggio ancora rinunciare a un talento».
Quindi non la pensa come Sarri, che ha spesso sacrificato Lazzari e Luis Alberto sull’altare dell’equilibrio della Lazio.
«Ho già fatto questo esempio. Se hai David Beckham, lo fai giocare esterno destro a prescindere da quale sia il tuo credo o il tuo schieramento preferito. Se hai Ibrahimovic in squadra, non puoi servirlo come Immobile nello spazio o in profondità, ma devi passargli la palla addosso. E, quando possibile, devi crossare al centro per sfruttare le sue capacità nel gioco aereo. Un allenatore deve cercare sempre di esaltare le qualità individuali di un gioiello che ha in mano. Piuttosto bisogna rinunciare alle proprie idee e far evolvere il proprio pensiero».
E lei che idea si è fatto più in generale del campionato italiano?
«Ho visto Roma-Juventus e non so cosa stia succedendo ai bianconeri con quella rosa pazzesca. Inter e Milan in questo momento sono le squadre più forti, dietro c’è il Napoli in seconda fila».
Si aspettava che il suo pupillo Simone Inzaghi potesse far bene anche lontano da Roma?
«Assolutamente sì, dopo aver ammirato la sua evoluzione in questi anni in panchina. Alla Lazio ha fatto un gran lavoro, doveva fare il salto e ora tutte le sue squadre giocano un bel calcio. Se mi avessero chiesto vent’anni fa di Simone, non avrei immaginato per lui una grande carriera da allenatore. Ma sono felice e convinto che in nerazzurro possa davvero vincere il tricolore. Ci sarebbe un pezzetto di me, come nei trionfi di Mancini e Simeone. Sta facendo bene anche Conceicao».
I biancocelesti affronteranno il suo Porto a febbraio negli spareggi di Europa League.
«Sono molto curioso di vedere quell’incontro. Anche Sergio – come Inzaghi – vent’anni fa non mi sembrava un predestinato».
Da chi è rimasto invece deluso?
«Deluso no, ma ero certo che Veron potesse diventare un grande tecnico, visto che lo era già in campo. Vedeva in anticipo quello che dalla panchina non vedevo nemmeno io».
Era insomma il cervello della sua Lazio. A proposito, Eriksson, perché andò via dopo aver vinto lo scudetto?
«L’anno dopo è difficile capire cosa sia successo. In tre anni la mia banda aveva vinto moltissimo: scudetti, coppe nazionali, Coppa delle Coppe, Supercoppa Europea. Improvvisamente, la squadra non funzionava più. E non giocava come prima, deludendo le aspettative dei tifosi. A distanza di tempo, quello resta un mistero difficilmente spiegabile, ma nel calcio questo a volte può succedere quando perdi la motivazione. Basti vedere adesso la Juve».
A 73 anni ha ancora voglia di allenare?
«Certo, se arrivasse una buona proposta, sarei pronto e accetterei. Ma non penso che il Liverpool arriverà ad offrirmi cinque anni di contratto prossimamente (ride, ndr) Ormai anch’io ho un’età. Mi sento un giovanotto, ma devo accettarla. Il calcio però mi manca. E anche se mi chiamassero in serie A verrei di corsa».