La Stampa, 17 gennaio 2022
Come cambia il cinese scritto (anche con gli emoticon)
Il monosillabo qì designa in lingua cinese l’aria, l’energia vitale. Simile allo pneuma greco, al prana indiano, è un concetto essenziale per comprendere cosmologia, pensiero e medicina tradizionale. Inalterato da millenni, il qì viene tradito sulla carta da una sessantina d’anni, da quando cioè la Repubblica Popolare Cinese semplificò la scrittura. Prima il carattere qì conteneva anche l’ideogramma (mi) che simboleggia i chicchi di riso. Occorrevano per scriverlo dieci tratti di penna o pennello, adesso solamente quattro, ma così in nome della semplicità risulta che a formare l’energia vitale basti il respiro: è scomparso il cibo. Non è un’amputazione trascurabile, ma la sottrazione di un concetto che invece permane a Taiwan e Hong Kong, dove è ancora impiegata la scrittura in caratteri classici. E quello del qì non è, naturalmente, che un curioso esempio tra i tanti.
Fu in nome della modernità, soprattutto con il movimento studentesco del 4 maggio 1919, che la maggioranza degli intellettuali cinesi si scrollò il peso della prosa letteraria colta, il wényán, in favore della scrittura vernacolare báihuà. La tendenza maturava da decenni e fu epocale non solo per la letteratura ma per il costume, la politica, le scienze e per la scolarizzazione. Paragonabile al passaggio dal latino al volgare, si sviluppò assieme alla scelta del dialetto pechinese come parlata standard della Cina repubblicana: il put?nghuà. L’impulso successivo lo diede la Repubblica Popolare negli anni Cinquanta, adottando anche il sistema di romanizzazione ufficiale pinyin, che si è imposto sui precedenti ed è oggi il più utilizzato per la trascrizione dei caratteri nelle lingue alfabetiche. Fu un processo lento, la dismissione dei consolidati sistemi fonetici francese (E.f.e.o.) e soprattutto inglese (Wade-Giles), ma qui vale la pena per inciso ricordare, a meritata gloria della sempre poco evocata sinologia italiana, che nella trasposizione dei caratteri ideografici in lettere alfabetiche s’erano pure cimentati, nella prima metà del Novecento, il fiorentino Ludovico Nocentini, il gesuita Pasquale D’Elia e l’Ordine dei frati francescani.
È stata sì una lunga marcia, quella della lingua cinese nell’ultimo secolo, ma quanto sia stata gloriosa se lo domanda un dovizioso articolo di Ian Buruma apparso sul New Yorker come recensione al libro della sinologa Jing Tsu della Yale University, Kingdom of Characters: The Language Revolution That Made China Modern. Cosa ha perso per strada l’idioma di Confucio, per adeguare la sua complessa struttura ideografica alle tastiere di telegrafi, macchine per scrivere, pc e device? Cosa ha perduto per adattare il millenario, fluviale patrimonio scritto agli imperativi della politica? Le domande non riguardano solo il passato, ma i costi che Pechino affronterà per imporre con il soft power la sua narrazione. Non è questione di medium digitale o stampato: piuttosto, si osserva nell’articolo, «la storia della lingua cinese sotto il Comunismo è prevalentemente una storia di repressione e distorsione, che solo eroi e pazzi hanno sfidato». Se diventa sospetta o sparisce nel cyberspazio cinese la parola tennis allo scoppio del caso Peng Shuai, l’atleta che ha denunciato la violenza sessuale subita da un big del Partito, probabilmente la marcia della lingua si prospetta ancora lunga e non tutta gloriosa.
Fu tradotta in italiano nel 2004, dal piccolo editore romano Irradiazioni, la raccolta di saggi L’umore, l’onore, l’orrore del sinologo fiammingo Simon Leys (pseudonimo di Pierre Ryckmans), rievocato dal New Yorker per un’acuta affermazione: la civiltà cinese, a differenza di quella occidentale o indiana, spicca per la monumentale assenza fisica del passato, salvo rarissime vestigia. La ragione, secondo Leys, è che ha affidato la trasmissione spirituale della propria civiltà alla parola scritta, alla carta, alla calligrafia. Fino al paradosso borgesiano che si potrebbe risparmiare a un monumento lo stato preliminare dell’esistenza reale per «passare direttamente alla condizione dell’esistenza letteraria. Che differenza c’è tra un giardino famoso che non esiste più e uno che non è mai esistito, dal momento che entrambi in fin dei conti esisteranno per i posteri solo grazie alla scrittura?». Quest’atteggiamento spiega tra l’altro la scarsa affezione per le “pietre”, e la loro sostituibilità con i grattacieli, purché siano state salvate in un’opera letteraria, su un rotolo, in un adagio popolare. E spiega la commistione dei draghi e delle fenici con bufali, tigri e scimmie: una volta effigiati, raccontati, calligrafati, nella storia o nelle storie, quei mitici animali non esistono meno degli altri. Senza contare gli irrinunciabili riferimenti di cui sono oggetto, da quelli idiomatici alle citazioni colte delle poesie T’ang e dei classici confuciani, che alimentano tutti la linfa della lingua (o, se è lecito citare ancora il vecchio maestro oxoniano Max Müller, il «genio del linguaggio»).
Sicché tutto questo motiva, alla fine, l’importanza di ogni carattere ideografico, che è lo strumento con cui le cose esistono o scompaiono. Perciò abolire i chicchi di riso dentro il qì certamente favorisce la scolarizzazione, ma si mangia una fetta di realtà. È ben più di un vocabolo caduto in disuso in una qualsiasi lingua alfabetica: è la fine di una psicostruttura che contempla per un cinese acculturato, secondo il sinologo Jerry Norman, una conoscenza compresa fra i 3.500 e i 4.000 caratteri su un totale di 6.000 d’impiego più o meno corrente. Senza considerare il vulnus alla bellezza dell’arte calligrafica, che perciò si serve ancora spesso, anche a Pechino, dei caratteri tradizionali.
Mao Zedong lo sapeva bene quando pubblicò le sue poesie che ricalcavano, in caratteri classici, lo stile degli antichi modelli. Scoraggiò però i giovani dall’emulazione di queste «erronee tendenze» foriere – ma per loro – di «influenza negativa». Come recita il proverbio latino: quod licet Iovi, non licet bovi (ovvero, io so’ io...).