Marco Molendini per Dagospia, 16 gennaio 2022
L’UOMO CHE SCALÒ IL “MURO DEL SUONO” - MARCO MOLENDINI: “PHIL SPECTOR QUANDO ASCOLTÒ LE RONETTES ERA STANCO DI SENTIRE BAND CHE FACEVANO UN ROCK SEMPLICE E NAIF (BASSO-CHITARRA-BATTERIA) E AVVERTIVA L'URGENZA DI DARE UN SOUND IMMAGINIFICO AL POP PRENDENDO UN RIFERIMENTO GIGANTESCO, I MURI DI SUONO SINFONICI DI WAGNER – DA LENNON CON “IMAGINE” A SPRINGSTEEN CON ‘’BORN TO RUN’’, IL SUO LAVORO HA DISEGNATO LA FIGURA DEL PRODUTTORE POP, NELL’IDEA CHE LO STUDIO POSSA ESSERE UNO STRUMENTO DA FAR SUONARE. E CHE IL SUONO SIA LA VOCE DELL’ORIGINALITÀ. UNA FUNZIONE PERSINO DOMINANTE RISPETTO AGLI INTERPRETI’’ - VIDEO -
Cinquantanove anni fa quel pazzo di Phil Spector era in studio alla ricerca di nuove voci femminili. “Ecco quello che cercavo”, gridò smettendo di suonare il piano e alzandosi in piedi dopo aver sentito ‘’Why do fools fall in love’’, un vecchio successo doo wop proposto da tre ragazze che ci provavano da un po’ senza sfondare.
A entusiasmarlo era la solista, Ronnie Bennett, ventenne dalla voce infantile, intensa e malinconica (destinata poi a diventare sua moglie e ad assaggiarne le mattane private a cominciare dalle minacce di ucciderla e chiuderla in una bara che teneva nel seminterrato).
Quel giorno di marzo nacquero le Ronettes come fenomeno musicale, ma soprattutto trovarono sbocco le idee di quell’irrequieto inventore e cucinatore di suoni venuto dal Bronx con sogni di grandezza musicale.
Ronnie se ne è andata nei giorni scorsi, a un anno di distanza dal suo instabile ex ma geniale marito e, quella stagione, riaffiora così nella memoria, ricorda e ammonisce. Ricorda che, nella musica, la ricerca del suono si è perduta. L'uniformità di quello che si ascolta non è frutto solo della mancanza di idee, di talenti, di iniziativa.
La fabbrica, con rarissime eccezioni, è dominata da produttori che lavorano sull’ algoritmo delle visualizzazioni e degli ascolti streaming. Il pericolo, ovviamente, è una monocultura sonora accompagnata dal fatto che l'ascolto è delegato in gran parte a uno strumento grande come una mano, lo smartphone, con cuffie che, per quanto fedeli, non educano l'orecchio al particolare.
Phil Spector quando ascoltò per la prima volta le Ronettes era stanco di sentire band che facevano un rock‘n’roll semplice e naif e avvertiva l'urgenza di dare un sound immaginifico al pop prendendo un riferimento gigantesco, i muri di suono sinfonici di Wagner.
La prova centrale del suo esperimento è ‘’Be My Baby’’, un classico pop, esempio esplicito di quello che sarebbe stato battezzato Wall of Sound, immagine peraltro suggerita da eclatanti precedenti storici.
La definizione ha origine nel 1874, con il New York Times che riporta le parole di Richard Wagner a proposito dei lavori di ristrutturazione del Teatro dei Nibelunghi a Bayreuth dove, per la prima volta, l’orchestra sarebbe stata collocata in una fossa fuori dalla vista del pubblico (il golfo mistico) producendo così un immaginario “Wall of music” destinato a separare il reale dalla fantasia.
Il termine, modificato in ‘’Wall of sound’’ tornò in auge con i fiati enfatici del jazz di Stan Kenton. Poi, ecco sbucare quel pazzo di Spector che, per un quinquennio, diventa il suono dell’America giovane, in attesa della seconda rivoluzione del rock.
‘’Be My Baby’’ è un tuono nel panorama musicale di quei primi anni Sessanta, mai un pezzo pop aveva mostrato tanta potenza, mai un pezzo pop era stato sottoposto a una cura strumentale simile, un vero booster sonoro. Lo Spector sound denso e prepotente di Phil era il risultato di una tecnica che puntava sulla ricchezza di una trama di voci, archi e ottoni raddoppiandoli o triplicandoli per creare una massa sonora continua che si sommava alla classica e rudimentale strumentazione basso-chitarra-batteria del pop rock.
A sostenere l’impalcatura una potente base ritmica: il ”boom ba boom bop” introduttivo di ‘’Be my baby’’, cordone ombelicale su cui poggiano quell’imponente strumentazione e le voci delle Ronettes, è uno dei ritmi di batteria più riconoscibili della musica popolare, prodotto da un percussionista speciale, Hal Blaine, uno che si era fatto le ossa con Count Basie e poi, nella sua carriera, lascerà la firma su successi come ‘’Strangers in the night’’, ‘’Monday, monday’’, ‘’Good vibrations’’, ‘’Mrs Robinson’’, ‘’Bridge over troubled water’’.
La canzone delle Ronettes diventa subito un successo incredibile. Trainata dalla sua comunicabilità diretta, dalla voce di Ronnie incastonata in quella confezione così roboante, si afferma come uno dei classici più riconoscibili della storia del pop.
Ma segna anche una svolta nella crescita dell’industria musicale popolare, l'affermarsi dell’idea che la costruzione di un brano sia sottoposto a una procedura creativa in cui svolgono un ruolo determinante arrangiatori e produttori, una funzione persino dominante rispetto agli interpreti. Anzi gli interpreti dipendono da quel lavoro, un lavoro di alta sartoria capace di fabbricare un suono su misura, come se fosse, appunto, un vestito.
È una svolta che sa di voglia di nuove tecnologie, di desiderio di affrancare la musica pop, nelle mani e nelle orecchie degli adolescenti, dai sistemi di riproduzione rimasti essenzialmente gli stessi dei genitori: juke box, radio e dischi con piccoli altoparlanti guidati da amplificatori di limitata potenza.
L’unico modo per dare forza e impatto alla musica è farla suonare più ricca al momento dell'esecuzione, non curandosi dei rischi di distorsione o dei riverberi che, anzi, vengono cercati. I dischi che Spector realizza tra il 1961 e il 1966, nell'idea che la musica suoni meglio quando è ad alto volume, sono così compressi che esplodono dal più piccolo altoparlante. Sono più rumorosi della vita. E' il pop che grida la propria forza.
Ma poi è proprio la tecnologia ad atterrare di lì a poco lo Spector sound con l’avvento di amplificazioni potenti che spingono la musica nei festival, nei concerti, nell'ascolto casalingo. L’instabile Phil, che non ha ancora trent'anni, entra in crisi, con il colpo finale dello scarso successo di ‘’River deep, mountain high’’ di Ike e Tina Turner, su cui puntava tantissimo.
Poi, dopo due anni, torna in gioco. Quando i Beatles lo chiamano per ‘’Let it be’’, Paul McCartney si lamenta delle orchestrazioni e dei cori pesanti di ‘’The long and winding road’’, ma forse più che altro lo urta il fatto che Spector sia andato avanti per conto suo, senza consultarlo.
L’idea che Phil ha del suo ruolo è granitica, si considera il regista che organizza la musica, gli artisti sono la sua troupe (come aveva sperimentato Tina Turner costretta a ripetere all’infinito ‘’River deep, mountain high’’). Lennon, comunque, continuerà a chiamarlo: dietro la confezione del suo successo più grande, ‘’Imagine’’, c'è la sua mano con quegli archi che attribuiscono una solennità da inno al pezzo.
Così lo chiameranno Leonard Cohen, i Ramones, e al suo muro di suoni si riferiranno i Sex Pistols con le venti sovraincisioni di chitarra orchestrate e cariche di feedback di ‘’Anarchy in the U.K’’. e ‘Bruce Springsteen con ‘’Born to run’’.
L'avventura, tutto sommato breve e agitata di Phil Spector, resta alla fine come segno indelebile di innovazione al di là dell’invenzione del Wall of sound, perchè il suo lavoro ha disegnato la figura del produttore pop, nell’idea che lo studio possa essere uno strumento da far suonare. E che il suono sia la voce dell’originalità.
Forse dalla sua imperiosa e immaginifica follia dovrebbero imparare qualcosa anche le legioni di produttori che comandano la piattezza del panorama musicale contemporaneo, dove mancano sonoramente maghi della musica come Spector, George Martin (quanto c’è di suo nei Beatles maturi?), Quincy Jones (ascoltare il Michael Jackson con lui e quello senza), Ennio Morricone (quanto deve la storica Rca al suo estro?), Brian Eno (gli U2 migliori, David Bowie berlinese, Talking Head).