Come definirebbe una lingua?
«Un organismo vivente e una convenzione sociale fatta da una collettività anche dialettale. Le regole che un grammatico può stabilire nascono quasi sempre dall’uso della lingua. Non l’anticipano».
Abbiamo avuto grandi linguisti?
«Certamente. Penso al mio maestro Benvenuto Terracini e a Giovanni Nencioni, di cui non fui allievo, ma il debito che la mia generazione ha contratto con lui è stato grandissimo».
Lei ha studiato dove?
«All’università di Torino. Mi laureai nel 1958 e furono
anni culturalmente straordinari. Credo che in quel periodo Torino avesse la migliore università d’Italia».
Chi vi insegnava?
«A parte i nomi che ho citato c’erano filosofi importanti come Abbagnano e Pareyson, storici come Galante Garrone e Venturi, per la germanistica c’era Cesare Cases e per la francesistica Lionello Sozzi.
C’era, ovviamente, Bobbio. E per la letteratura italiana Giovanni Getto che fu per me l’altra figura di riferimento. E poi fuori dall’università c’erano le importanti case editrici i cui libri si intrecciavano con i grandi dibattiti del momento su marxismo, strutturalismo, semiologia. Torino è stata una grande capitale intellettuale, dalla cui università sono usciti personaggi come Eco, Vattimo, Magris».
Vedo un pianoforte nella stanza.
«Ogni tanto lo suono. Avrei voluto fare il musicista. Cominciai perfino a studiare in conservatorio».
Cosa glielo ha impedito?
«Fu mio padre a convincermi. Mi disse che i grandi pianisti sono dei mostri di bravura e lo sono perché hanno qualcosa dentro che li rende diversi. Tu hai questo talento? Mi chiese. E aggiunse: magari mi sbaglio ma non ce l’hai, purtroppo. Mi spinse a iscrivermi a Lettere. E se non lo avessi fatto, forse sarei finito a suonare in qualche piano-bar».
Non si è messo alla prova.
«Dovevo decidere la direzione. Nel profondo sapevo che non sarei mai stato il grande pianista che avevo per un momento immaginato di diventare. Perciò quello che ho fatto è stato di evitare il rischio di fallire. Frequentando Benvenuto Terracini mi accorsi che somigliava a Socrate. Seppe cogliere quel poco di interessante che c’era in me. Gli proposi di laurearmi con lui su una tesi che mettesse insieme letteratura e musica. Si occupi della prosa d’arte e ne studi il ritmo, mi disse, e vedrà che troverà la sua strada nuova senza abbandonare del tutto la vecchia».
Accennava prima a Giovanni Getto.
«Non è stato il mio professore e forse per questo ho preso il meglio da lui. È stato un maestro con uno spiccato senso tragico della vita».
Perché senso tragico della vita?
«C’era nei suoi gesti a volte perfino nelle parole una specie di teatralità barocca. Epoca che prediligeva.
Ricordo che nel periodo in cui ho insegnato in Spagna lo invitai per una conferenza all’Università di Salamanca. Il giorno dopo mi chiese di visitare il convento di santa Teresa d’Avila. Lo condussi ad Avila che era a un centinaio di chilometri. E vidi improvvisamente quest’uomo cadere in estasi davanti all’immagine della croce dove si inginocchiava Teresa D’Avila».
Che cosa sa del suo tentativo di suicidio?
«A quel gesto estremo fu spinto dalle tante provocazioni che subì durante la contestazione del ‘68. I suoi fragili nervi non ressero. Tra gli episodi che contribuirono allo smarrimento ci fu l’interruzione di una sua lezione da parte di Luigi Bobbio, il figlio di Norberto. Ne restò turbato. E quel senso tragico cui alludevo esplose improvviso. Si buttò da una finestra ma la caduta venne fortunatamente attutita da un balconcino. Si salvò. Ma quel gesto disperato riassumeva la fine del suo mondo cui aveva magnificamente dedicato la vita. Non sono stato un allievo diretto, ma a Getto devo oltre all’amore del leggere quello dello scrivere».
L’allievo prediletto da Getto fu Edoardo Sanguineti.
«Uno dei giovani più brillanti e preparati che allora animavano la facoltà di Lettere. E pensare che nella vita avrebbe voluto fare il ballerino. Getto lo prese come assistente, a riprova del fatto che sapeva giudicare perfettamente il talento di uno studente al di là delle apparenze. La rivista Lettere italiane che dirigeva con Vittore Branca fu una splendida palestra di pluralismo, io stesso vi collaborai. E fu Getto a farmi pubblicare il mio primo libro, che poi era il rifacimento della tesi di laurea».
Lei è un linguista e un critico letterario. Da un lato osserva le parole da vicino, dall’altro è come se le guardasse da lontano. Si è mai chiesto non perché gli altri scrivono, ma perché lei scrive?
«Me lo sono chiesto e ho spesso pensato che il mio scrivere è al servizio di altre scritture».
Come un domestico al servizio di un padrone?
«L’immagine è un po’ brutale ma rende l’idea. In realtà c’è in quel gesto anche altro ».
Quest’altro mi fa pensare al rovesciamento per cui alla fine il padrone vero è il servo.
«L’illusione è un po’questa. Ma la verità è che scrivere è per me una specie di vizio».
Quindi un sentimento negativo?
«Una disposizione mentale e fisica che si presenta come una “faccenda strana”, diceva Maria Corti. Sei davanti alla pagina bianca e hai la sensazione di esistere in quel momento solo se scrivi. È chiaro che scrivere pagine letterarie è entrare in un territorio molto particolare, dove il grado di espressività deve essere adeguato all’oggetto trattato. Ma alla fine perché si scrive? Lei mi chiede. Si scrive per comprendere se stessi o gli altri, si scrive per piacere o per emozione; o magari, come diceva Calvino, si scrive perché non si sa fare niente di meglio. Ma non ne sono convinto».
Questo culto per la parola non l’ha mai tentata?
«In che senso?».
Non ha mai provato a fare il salto dalla parola critica alla parola narrata?
«Mi sta chiedendo perché non sono uno scrittore. Beh la risposta è semplice: non ne ho le capacità. Il mio amico Claudio Magris, ad esempio, è riuscito a fare il salto. E dal momento in cui ha preso questa decisione con Danubio non è più tornato indietro».
Quando dice che non ne ha le capacità cosa intende esattamente?
«Non possiedo la vera immaginazione che hanno gli scrittori e i poeti. Fortunatamente per il lavoro che faccio non ne ho bisogno. Mi sono sempre mosso con maggior disinvoltura tra le storie di parole se dietro ad esse coglievo qualche vicenda storico culturale. È un mestiere complicato lo scrivere, sempre in bilico tra realtà e finzione».
La letteratura come il falso che si fa vero.
«Cos’è Don Chisciotte di Cervantes se non il luogo in cui il falso diventa vero e il visibile invisibile?».
Lei usa spesso la parola “mestiere” non è un po’ riduttiva applicata allo scrivere?
«È vero che un mestiere si impara. Ma in un mestiere riuscito bisogna metterci del proprio. Questo fa la differenza».
Uno dei suoi ultimi libri si intitola “I ‘mestieri’ di Primo Levi”. L’uso del plurale perché?
«Oltre al chimico e allo scrittore, Levi praticò il mestiere del linguista. Fin da ragazzo una delle sue letture preferite erano i dizionari, in particolare quelli etimologici, soprattutto se dialettali. Questo suo interesse è utile per giudicare meglio i suoi romanzi. In lui abitava un sottilissimo linguista».
Il suo mestiere era trovare nelle parole l’eco di qualcosa di lontano.
«O quanto non era immediatamente riconoscibile.
Nella Tregua c’è il termine yiddish “meschuge” che significa da un lato “matto”, ma allude anche alla follia lunare e malinconica dell’ebete. Nella Chiave a stella ci si imbatte in “erlo”, un regionalismo piemontese e Levi fa una digressione per spiegare che “fare l’erlo” è comportarsi da gradasso. Ma poi, proseguendo nella ricerca, scopre che l’erlo è lo Smergo Maggiore, una specie di anatra diffusa in Italia. Non c’è libro in cui Levi non apra delle parentesi linguistiche».
Immagino che una tale predisposizione gli provenisse anche dall’essere stato un chimico.
«Sicuramente, del resto ci sono pagine che egli dedica alla “lingua dei chimici”. Lo ha sempre attratto il processo con cui si dà il nome alle cose: “Quando si dà un nome a una cosa che non si conosce, si ha subito l’impressione di conoscerla un po’ meglio”, diceva».
Prima accennava al regionalismo linguistico.
«Era attentissimo alle simulazioni della lingua popolare e del dialetto. Nella Chiave a stella, per esempio, Levi fa parlare Faussone, il protagonista, con una lingua il cui uso è preponderante nell’ambiente operaio. Ed è una lingua di fabbrica, molto diversa da quella di radice rurale che troviamo in Pavese e in parte in Fenoglio».
Tanta meticolosità e precisione come si riverberava nell’uomo Levi?
«L’ho conosciuto in maniera saltuaria. L’impressione è che fosse un uomo tormentato, ma anche affabile e ironico. Si interessò al mio lavoro e io, ovviamente, al suo. La sua scrittura mi colpiva: nitida e sobria da un lato, ma anche continuamente aperta al sorprendente e all’imprevedibile».
Prima mi diceva che in questo momento si sta occupando di Beppe Fenoglio.
«Ricorre a marzo di quest’anno il centenario della nascita».
Uno scrittore molto diverso da Levi.
«Quando lessi Il partigiano Johnny fu come beccarmi un pugno nello stomaco, tanto forte era l’impressione di trovarmi davanti a qualcosa di totalmente diverso dalla produzione corrente. E non penso che oggi sarebbe più proponibile il respiro epico di un romanzo come quello, con Omero e Virgilio a fare da sfondo e a riemergere in alcuni dettagli straordinari».
Intende dire che il romanzo odierno non ha più nessuna relazione con i classici dell’antichità?
«Diciamo che se ne nutre meno. Non ne sente la necessità. Il romanzo cambia, gli scrittori mutano.
Sarebbe tuttavia troppo facile lamentarsi dell’assenza di un Fenoglio o magari di Gadda, Calvino o Volponi.
Ogni stagione ha la propria immagine da preservare. E non è detto che la caduta della scrittura solenne sia un male. Constato però che oggi il lettore di narrativa ama l’intrico, più che la costruzione del romanzo. Si appassiona alla storia e meno allo stile. È il segno della mutazione dei tempi. Ma non la considererei una sciagura».
Forse, come indicava Calvino, trova nella leggerezza la sua parola comunicabile.
«Ma anche qui bisogna distinguere tra la leggerezza come risultato di una tensione e la affrettata leggerezza dello scrittore troppo disinvolto. E poi dentro a questa unificazione planetaria si è creato uno stile mediatico che, ha osservato Kundera, nasce intorno agli stessi luoghi comuni, a una stessa visione della vita».
Siamo alle prese con un nuovo conformismo?
«Temo che gli scrittori finiscono con l’assomigliarsi troppo».