Robinson, 15 gennaio 2022
Carlo Levi, la profezia dell’orologio
«Avverto pertanto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento, perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica. Conto quindi di conferire al più presto un incarico per formare un governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato».
Queste sono le frasi conclusive di uno dei discorsi politici più lucidi e concreti da molti anni a questa parte: è il discorso di Mattarella per uscire dalla crisi politica difficile all’interno di una pandemia che ha creato un’emergenza che il Paese sta ancora affrontando, con Mario Draghi alla guida di un governo formato da quasi tutti i partiti politici.
Questa condizione ha una corrispondenza sorprendente con ciò che accadde alla fine della seconda guerra mondiale ( cioè a quando ci siamo molte volte riferiti per dire: un’emergenza così non la vivevamo da…). Bisognava ricostruire il Paese. Dopo tre tentativi di governo fatti da Bonomi, arriva il governo presieduto da Ferruccio Parri, con tutti i partiti dentro, e uomini come Emilio Lussu, De Gasperi, Togliatti, Nenni, Gronchi, Ugo La Malfa. Ferruccio Parri è uno dei rappresentati più illustri del Partito d’Azione.
Che compito ha questo governo? Certo, fondare l’Italia nuova e costruire quel Paese che poi andrà verso il referendum su monarchia e repubblica e la costituzione; ma nell’immediato ha un compito altrettanto decisivo: chiudere i conti con il fascismo, spazzare via tutte le ferite che ha portato, insieme a una macchina statale farraginosa, visibile nelle burocrazie e nel sistema gerarchico. Creare insomma un cambiamento che sia una cesura definitiva con il ventennio precedente.
Quindi, ricapitolando: bisogna superare un momento terribile – non solo in Italia ma nel mondo; e bisogna ricostruire e mettere le fondamenta, ricominciare, quindi bisogna per forza farlo tutti insieme. Ci vogliono tutti i partiti al governo e c’è bisogno di una figura di grande valore che guidi la ricostruzione. Ecco, questa è la situazione che l’Italia visse nel 1945; e questa è la situazione che stiamo vivendo adesso dopo lo scoppio della pandemia, come se l’Italia non si fosse mossa o come se si fosse tornati al punto di partenza.Di quel momento di settant’anni fa si occupa un romanzo straordinario, L’Orologio di Carlo Levi, che si svolge nei giorni delle dimissioni di Ferruccio Parri, a seguito dei litigi e delle vicendevoli accuse tra i partiti che non riuscivano a mettersi d’accordo su quasi niente. Dopo le dimissioni di Parri, sarà De Gasperi a diventare presidente del consiglio, e traghetterà l’italia fuori dal pantano. E il suo partito, la Democrazia Cristiana, diventerà il centro del potere per i successivi quarant’anni.
Il modo di De Gasperi di ricostruire l’Italia fu diverso da quello che si era proposto il governo Parri. Probabilmente fu più concreto, ma allo stesso tempo successe qualcosa di decisivo per il futuro. È di questo che parla il romanzo di Carlo Levi: della fine di un’idea euforica e rivoluzionaria che era nata con la Liberazione.
Ed ecco come lo racconta: il protagonista e narratore della storia è arrivato a Roma per dirigere una rivista culturale prestigiosa del Partito d’Azione, proprio nei giorni in cui Parri ha convocato una conferenza stampa che potrebbe annunciare le sue dimissioni.Il protagonista si sveglia una mattina, dopo aver sognato il suo orologio da tasca, lo prende dal comodino e gli scivola dalle mani. L’orologio si ferma, si rompe. Nel resto del libro c’è la ricerca continua di un orologiaio che lo aggiusti, ma nessuno ci riuscirà.
Poi arriva alla sede della rivista: non c’è ancora nessuno al lavoro, la scrivania è piena di polvere, l’ex direttore gli dice che non ha speranza di fare niente di buono, non ci sono soldi e ha un amministratore taccagno. Pian piano arrivano i redattori, e alcuni amici, tutti intellettuali importanti e che hanno dato un apporto notevole alla lotta contro il fascismo.
La sera restano lì a chiacchierare, ed ecco qual è la conclusione del narratore: «Io parlavo ad essi dei miei propositi, del modo come intendevo fosse diretto e amministrato il giornale: parlavo di edizioni, di corrispondenti, di riforma generale di indirizzo. Dicevo cose che avevo meditato a lungo, che mi parevano importanti, e che erano in verità importanti e necessarie. Ma sentivo che la mia voce cadeva nel vuoto: che essi, questo gruppo di uomini, tutti di grande valore, che avevano mostrato solo pochi mesi prima così illustri doti di coraggio, di disinteresse, di libertà vera, facevano mostra di ascoltarmi, ma pensavano ad altro. Capii che la mia scelta a quel posto era dovuta in gran parte a un compromesso fra due opposte fazioni, a me ignote; che non interessava veramente a nessuno che io facessi questa o quella cosa, ma che forse era preferito dai più, per ragioni a me altrettanto ignote, che io non facessi nulla; che tutto sarebbe stato indefinitamente rimandato, che legami a me incomprensibili legavano gli uomini. Sentii che, ancora una volta, ero caduto in uno stagno di interessi e di intrighi di cui mi sarebbe sempre sfuggita la ragione, in un mondo chiuso e impenetrabile».
Il coraggio di cui parla riguarda sia la lotta partigiana contro il fascismo, sia la volontà di ricostruzione azzerando il ventennio fascista, estirpandolo dal Paese. Alla ricerca di un’Italia inedita, lanciata dall’uscita dall’incubo. Ma già l’orologio è fermo, già i migliori sono disincantati. E già Parri e il sogno che porta con sé sono pronti alla resa. Già si capisce che l’Italia che verrà assomiglierà un po’, o tanto, all’Italia che è stata – quello che del resto aveva capito subito il principe di Salina nel Gattopardo.Bisogna tener conto che L’orologio è uscito nel 1950, e che Carlo Levi ha cominciato a scriverlo nel ’ 47, solo due anni dopo i fatti. Quindi la sua è una capacità straordinaria di cogliere il momento esatto in cui è successo qualcosa: e cioè il momento in cui l’Italia non è davvero cambiata. Un libro del genere si sarebbe potuto scrivere decenni dopo, quando tutto diventerà più comprensibile. Ma capire e narrare praticamente in diretta ha reso L’orologio un libro profetico e così grandioso da non essere stato compreso immediatamente – Einaudi lo pubblicò addirittura nei Saggi: ma la forma del libro, la sua ossatura fatta di narrazione, saggio e reportage assomiglia a molti romanzi di oggi, e meno a quelli di settanta anni fa.
Poi il narratore si reca a una mensa dove vanno alcuni comunisti, giornalisti, ex partigiani. E lì conosce un giovane assunto da poco al ministero – dove il fascismo ha operato più profondamente, nelle circonlocuzioni burocratiche. Ed ecco le conclusioni di Ferrari ( così si chiama il neoassunto): «Abbiamo fatto la guerra, che è stata, si voglia o no, una rivoluzione, abbiamo visto la morte, abbiamo pagato per i peccati nostri e per quelli degli altri, abbiamo buttato dietro le spalle il passato e anche tutte le cose care, gli affetti, le dolcezze della vita, abbiamo vissuto con gli uomini, ci siamo sentiti uniti fra noi, abbiamo capito che cosa è il mondo, ma tutto questo è come si fosse svolto in un altro pianeta. (…) ma dentro il palazzo del Ministero, a pochi metri di là, è come nulla fosse mai avvenuto. Quei muri isolano dal mondo di fuori una casta chiusa di piccoli borghesi degenerati e miserabili, sordi e ciechi e insensibili a tutto se non ai loro piccoli bisogni, alla loro omertà, ai loro intrighi talmente meschini e microscopici da riuscire incomprensibili».
E ancora: «Li vedeste, quegli esseri, seduti sulle loro sedie, davanti alle loro scrivanie, a far nulla, materialmente nulla, neanche a leggere il giornale, per ore e ore, con gli occhi imbambolati, in una specie di estasi d’ozio o forse di mistica compenetrazione con la vuota idea dello Stato. Vedeste quelle loro facce, terribili, feroci nella loro piattezza. Sono un muro intonacato, e noi tutti ci battiamo contro, e non riusciamo a buttarlo giù. L’epurazione non riesce a nulla, contro quella resistenza passiva. Sono sempre quelli di prima, e altri perfettamente simili a loro». E Ferrari poi, riferendosi alle possibili dimissioni di Parri, dice che gli impiegati si fregano le mani, si strizzano l’occhio; perché il governo «aveva avuto il coraggio o il programma, o la pretesa o la speranza di cambiare qualcosa, di toccare il loro nascosto e invisibile potere, e non sapeva quale serpente stuzzicava».
Quindi, arriva il momento di andare al Viminale, dove si tiene la conferenza stampa di Parri, e di vedere con i propri occhi uscieri e impiegati accogliere i giornalisti con un ghigno di soddisfazione, quello di chi ha sconfitto i pericoli del cambiamento. Parri fa un discorso durissimo, tanto che colui che si capisce essere De Gasperi si alza e gli chiede di ritrattare parole così gravi ( De Gasperi lo ha fatto nella realtà, ma nei giorni successivi in parlamento): Parri ha parlato di colpo di stato, De Gasperi gli dice: anche noi siamo democrazia e lo dimostreremo. E a quel punto, in un attimo, è finito tutto.
Appena dopo si farà l’unico governo che può essere fatto, quello di De Gasperi, e cambierà l’Italia in quell’altro modo: non inseguendo la cesura con il fascismo, ma lasciando in piedi un ponte che fa venire a patti con questa piccola borghesia, ministeriale e non. Probabilmente De Gasperi ha avuto l’intelligenza e la concretezza di aver capito che l’Italia non si sarebbe potuta ribaltare, che quell’inseguire l’idea di un Paese totalmente rinnovato e che abbia chiuso i conti con il fascismo, sarebbe stato un lavoro impervio, lunghissimo e talmente pieno di insidie da avere la possibilità concreta di non essere portato a termine; mentre venire a patti con il passato, lasciare una continuità, sarebbe stato più rapido e, appunto, fattibile.
Così ha dato all’Italia un futuro immediato, una ricostruzione rapida; però ha anche ipotecato un futuro dove di quel mancato cambiamento paghiamo conseguenze dolorose, sia dal punto di vista della burocrazia ministeriale ( come sintetizza Levi) sia per la presenza ancora viva e attuale del fascismo in forme nuove. Ma l’Italia non ha saputo fare i conti con molte altre questioni, compresa per esempio la fine del Partito Comunista; e chissà se questa volontà di saltare in avanti rapidamente non sia nata in quei giorni del dicembre del ’ 45, e proprio da coloro che avevano rischiato la vita per liberare l’Italia.
In ogni caso, nel dicembre dello stesso anno in cui la guerra finisce e deve cominciare la ricostruzione, le idee più ambiziose sono già state sconfitte, e gli uomini migliori sono già arresi.
Il narratore va via dal Viminale, con la testa bassa e i pensieri malinconici. Sotto la pioggia percorre via Nazionale, assiste a un folle che inginocchiato spara con un fucile immaginario a ogni auto che passa, e poi viene preso sottobraccio, da una parte e dall’altra, da due amici che hanno anche loro assistito alle dimissioni di Parri e che stanno discutendo animatamente delle conseguenze. Sono Carmine Bianco e Andrea Valente. Sono, come in tutto il libro, i nomi letterari di due persone vere: si tratta di Manlio Rossi Doria e Leo Valiani. Lo conducono nel traforo di via Milano, come se fosse la caverna in cui poter dire tutto essendo al riparo. Parlano di molte cose, e cominciano dalla Sinistra: «naturalmente non gli importa nulla del successo, anzi, hanno piuttosto il gusto del sacrificio, del martirio» – e credo che questa frase rappresenti tutta la sinistra italiana da quel momento fino a oggi. E poi c’è una frase di questo libro che rende tutta la forza profetica che gli attribuiamo: «Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima: cose sempre più piccole e più lontane, e un’astratta passione, sempre uguale, triste: ma vedrai che andrà così».
Tutto questo per dire che la battaglia politica è già perduta. Lì, in quel traforo profetizzano che il Paese si scinderà in due parti, due religioni: quella cattolica e il comunismo ( e accadrà per molti e molti anni).
Il libro poi si chiude con un viaggio a Napoli da uno zio morente, che poi lascia in eredità la sua cipolla al protagonista – e in questo modo (in qualche modo) un orologio ricomincia a battere il tempo. Poi bisogna tornare a Roma e un deputato della Dc Colombi ( nella realtà è Attilio Piccioni) gli dice: vieni con me, c’è anche Tempesti, del Pci (nella realtà è Emilio Sereni). E quindi il protagonista di Carlo Levi si siede in macchina per ripartire per Roma in mezzo a questi due, da una parte il rappresentante della Dc, dall’altra il rappresentante del Pci che dicono: va bene, cercheremo di risolvere noi i problemi del paese e portare avanti la rinascita. Dopodiché si addormenta prima uno e poi l’altro. E l’auto giunge a Roma così, con i due rappresentanti del partito addormentati.
Appena dopo la Liberazione, appena appena dopo, l’epica della politica finisce; è probabilmente la prima volta che cominciamo a considerare la politica come una cosa meno importante, che le togliamo potenza. Poi ce ne sono stati tanti altri di questi momenti e oggi diciamo: come è brutta la politica, come è brutto quando parlano nei talk show eccetera – ma questa svalutazione della politica ha avuto inizio con la caduta del governo Parri, ed è sintetizzata secondo Carlo Levi da questi due politici che si addormentano. Dopo, a cominciare da De Gasperi e Togliatti, di grandi protagonisti della politica ce ne sono stati, ma abbiamo cominciato a sentire quella specie di diffidenza che ci ha reso tutti scettici, e ha reso tutti discutibili. L’orologio si è rotto in quei giorni delle dimissioni del governo Parri, e stiamo provando e riprovando ad aggiustarlo. Da anni e anni. E restiamo convinti che un giorno ci riusciremo. E forse questo è il senso che ha la politica, e da qui deriva la possibilità di restarne appassionati: continuare a credere che un giorno ci riusciremo.